Cultura
L’olio lampante, ecco come ha illuminato Roma

Dall’antichità, uno degli utilizzi dell’olio d’oliva è l’illuminazione, tanto da dare il nome alla categoria merceologica cui quel tipo di olio, ora meno pregiato, appartiene. Ecco come la città di Roma illuminava le proprie strade mediante l’olio d’oliva e grazie alla figura dell’accenditore o lampionaio.
04 giugno 2025 | 12:00 | Giosetta Ciuffa
C’è stato un tempo in cui l’olio lampante - oggi utile solo a un’industria olearia di grandi numeri - è stato fondamentale per il progresso, come indicato dal nome stesso. Perché infatti si chiama olio lampante? Semplice e anche… lampante: perché serviva ad accendere i lampioni. Giochi di parole a parte, utilizzo principale dell’olio d’oliva era proprio l’illuminazione, com’è noto ed emerge da scavi archeologici e testi dell’antichità (e le lucerne ad olio sono anche metafora rilevante in una parabola evangelica).
Per vederne gli utilizzi nella quotidianità, bisogna farsi condurre attraverso i secoli da una lampada ad olio che rischiari il cammino fino a Roma dove, ancora ai primi del 1800, si usavano fiaccole e lanterne a candela per illuminare le zone centrali di importanza politica e religiosa - la cupola di S. Pietro poteva contare su 4.014 lanternoni a candela ed era ravvivata da 837 fiaccole a fiamma libera -; dal 1810 tali zone vennero illuminate da lampioni ad olio. Grazie al volume “L’illuminazione a Roma nell’Ottocento” della storica dell’arte Carla Benocci possiamo dunque approfondire l’utilizzo dell’olio lampante anche in questo aspetto dell’urbanistica. Alla fine del XVIII secolo infatti non esisteva illuminazione pubblica continuativa e le strade erano rischiarate giusto dai lumi posti davanti alle Madonnelle nelle edicole sacre ma già dalla prima repubblica romana del 1798-99 si era pensato, per motivi di sicurezza, a 550 lampioni ad olio, appesi al centro della via e non più ai lati, per una spesa di oltre 14mila scudi; progetto poi non realizzato. E già si riconosceva il valore aggiunto dell’illuminazione a fini commerciali: avendone un vantaggio, alla manutenzione dovevano pensare i bottegai.
Divenuta Roma la seconda città dell’Impero francese, nel 1810 risultano 39mila franchi per l’acquisto di 410 lampioni “a due, a tre e a quattro riverberi” (gli schermi che indirizzano correttamente la luce) e 68mila per le spese d’illuminazione; su mandato governativo è il Comune di Roma ad occuparsi di illuminare la città. Le condizioni di questo, o degli appalti successivi, sono puntigliosamente descritte nei vari documenti e capitolati: dagli otto magazzini in città per gli utensili (“corda con uncino e chiave per calare i lampioni, lanternino, stracci e due ferretti per sturare i cannelli e pulirli internamente, cenere e calce viva per pulire i riflessi e i lucignoli”) al numero di operai e di impiegati, alla conformità dei lampioni cittadini “a Quinquet” – dal nome del farmacista francese che aveva migliorato la lampada di Argand applicando un tubo di cristallo – alla “mostra sigillata esistente in Prefettura” approvata da Prefetto e Maire di Roma, all’orario di accensione e spegnimento sulla base dell’ora solare, alla “coloritura ad olio” (di lino) dei lampioni “nella stessa maniera e colore dell’anno precedente” e, su richiesta, all’inargentatura dei riflessi dei lampioni quando avessero smesso di riflettere una luce viva e duratura. E, ovviamente, l’uso esclusivo di “olio di oliva di buona qualità”, scorte che bisognava garantire al Maire di avere per almeno due mesi. Se questo non fosse stato osservato, sulla “semplice denunzia sommaria de’ due sorveglianti, o di due Agenti di Polizia, o di due Guardie Pompiere” l’appaltatore sarebbe potuto incorrere in multe sulla semplice intimazione alla persona: per ogni lampada smorzata, due franchi; per ogni lucignolo, che non sia simile alla misura assegnata o al campione esistente nella Mairie, e l’altezza del quale non superasse la boccaglia del lume di 7 millimetri, fr. 1.50; per olio di qualità inferiore alla mostra depositata alla Mairie, fr. 300; per mancanza totale dell’illuminazione in un solo quartiere, fr. 1000 e in città, fr. 3000. L’appaltatore inoltre manteneva in ciascuno dei corpi di guardia un sorvegliante che su chiamata della Polizia accorreva per accendere i lumi smorzati.
Restaurato il potere temporale, nel 1814 i bracci dei lampioni sono ormai 872 e la materia è competenza della Presidenza delle Strade che assume ispettori e sotto ispettori per il controllo (i romani probabilmente ricorderanno il Monsignor Presidente delle Strade che nelle innumerevoli lapidi vieta di gettare l’immondizia… un annoso problema). Si cercavano comunque alternative, poiché la Segreteria di Stato cercava notizie su altri combustibili “ed allora potrà decidersi, se quei torni conto surrogare alcuna di tali materie all’oglio di oliva”. Nulla di concreto, se ancora 15 anni dopo il Presidente delle Strade su proposta dell’appaltatore nomina un accenditore per ognuno dei settanta circondari in cui è divisa la città; a ognuno di loro sono affidati venti lampioni la cui accensione deve avvenire in trenta minuti, secondo le tabelle orarie. Certe cose invece non cambiano mai: allora come oggi, i cittadini facevano richiesta di servizi alla Municipalità. Nel 1833 infatti Mills, un gentiluomo inglese, chiede di installare a proprie spese due lampioni all’ingresso della propria vigna, in via di S. Bonaventura, facendosi carico sia dell’olio lampante che dell’accenditore personale.
Nel 1841 i lampioni attivi erano 1.814 e, nonostante crescesse l’interesse per l’illuminazione a gas, il nuovo appalto 1842-50 ancora prevedeva olio lampante. L’accenditore doveva essere dotato “di un cappotto di scarfagno di prima qualità, di un cappello a prova d’acqua e di una tracolla di corame nero con placca di metallo con l’analoga iscrizione, il tutto a forma dei campioni esistenti presso l’Ispettor Generale”, oltre a “tanto olio di uliva di buona, e perfetta qualità, chiaro e lampante, atto a dare una fiamma chiara, vivace e brillante” che doveva durare almeno quattro ore; era riportata persino l’altezza di fiamma e lucignolo.
L’industrializzazione avanza, le esigenze di una città come Roma mutano e si evolvono e, nell’appalto del 1847 per l’illuminazione a gas – vinto da quella che sarà la “Compagnia anglo-romana per l’illuminazione di Roma col gas ed altri sistemi” - si richiede una luce della fiamma tripla rispetto a quella generata dall’olio lampante. Vengono costruiti un impianto a S. Maria dei Cerchi (Aventino) e i primi gazometri della città, seguiti poi da un gazometro in via Flaminia: era stato inizialmente previsto fuori Porta del Popolo e poi scartato a favore di quello al Circo Massimo, per via delle correnti ventose che avrebbero portato effluvi in città. Nel 1867 si inizia a parlare anche del petrolio come mezzo illuminante mentre per l’iconico gazometro a Ostiense bisognerà attendere gli anni Trenta. Uno sviluppo urgente per l’Urbe ma certamente non poetico quanto l’immagine del lampionaio che accende la tremolante luce a olio per le strade del centro, ma anche in altre città e persino nel quinto pianeta esplorato dal Piccolo Principe di de Saint-Exupéry.
Un consiglio: i produttori che volessero trarre da questi resoconti storici del tempo che fu ispirazione per il proprio storytelling, dovrebbero tenere a mente che è di olio lampante che si parla e la valorizzazione deve essere a favore dell’extra vergine, specificando bene le differenze tra le due categorie commerciali. Perché da questo spaccato non trarre piuttosto l’idea che l’olio evo - cambiati tempi ed esigenze, è l’extravergine il più prezioso di cui disponiamo - sia una risorsa fondamentale, come un tempo lo era il lampante utilizzato per l’illuminazione? Oggi possiamo produrre olio di qualità, caratterizzato di profumi e sentori da podio e meritevoli della luce dei riflettori più di altri Paesi, eppure l’olio italiano rischia di restare alla stregua di un olio buono per l’industria (intanto, chi volesse figurarsi un lampionaio, può vederlo ritratto nella “Maddalena al Quirinale” di Achille Pinelli.
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