Cultura

TRA CANTO E DISINCANTO. VIAGGIO, NON SOLO LETTERARIO, IN UNA SICILIA SENZA TEMPO

Intervista a Roberto Costanzo. L'uscita, nelle sale cinematografiche, del film "I Vicerè" di Faenza, ci consente di inoltrare lo sguardo su un mondo ricco di fascino e di atmosfere introvabili altrove

08 dicembre 2007 | Antonella Casilli

L’uscita, nelle sale cinematografiche, del film di Faenza “I Vicerè”, tratto dall’omonimo romanzo di Federico De Roberto, ha fatto tornare alla memoria dei lettori la circostanza che, almeno nei secoli scorsi, è esistito un filone tutto siciliano della letteratura.

Abbiamo deciso allora di incontrare, per parlare di sicilianità, un appassionato cultore della letteratura, Roberto Costanzoun siciliano doc, che vanta una conoscenza di primissima mano dei luoghi, anche i meno conosciuti e privati, in cui è stato girato il film “I Vicerè” e dove ha tra l'altro vissuto lo stesso De Roberto.

E’ legittima la curiosità di controllare se in un dato tempo e luogo si sia scritto in modo differente che in altri luoghi? Se sei d’accordo parliamo di letteratura a prescindere dai contenuti, quindi escludiamo tutto quello che è recupero delle tradizioni popolari, penso a Pitrè e Amari...
La mia risposta è positiva, penso ad autori che pur scrivendo in perfetto Italiano presentano costruzione della frase, scelta delle parole e ritmo tali che creano un unicum tipicamente siciliano.
Questo fenomeno fa si che Verga, Lampedusa e Sciascia sembrino coevi ad attuali nel rappresentare questo fenomeno.

Quali sono le peculiarità che presenta la narrativa siciliana e dopo la lettura di quali autori si può pensare di aver conosciuto meglio la Sicilia?
Bisogna fare delle scelte, è ovvio, ritengo però che un libro fondamentale per conoscere la Sicilia è da un lato Mastro Don Gesualdo e molte novelle di Verga, quasi tutto ciò che ha scritto Sciascia, la tranquilla disperazione di Vitaliano Brancati, il disincanto scanzonato di Ettore Patti (siciliano a Roma, tutt’altro che isolato ), e, soprattutto, Tomasi di Lampedusa, con qualche
riserva su Federico De Roberto.

Cortesemente soffermiamoci un momento sull’avverbio da te usato: soprattutto Tomasi di Lampedusa; è forse dettato dalla tua appartenenza ed identificazione col mondo descritto da Lampedusa più che con altri?
Assolutamente no! Il motivo è di sintonia letteraria, scrive ai giorni nostri e pur tuttavia conserva un animo siciliano in cui le caratteristiche della sicilianità tendono a scomparire.
In Lampedusa ci sono sentimenti che io penso tipicamente siciliani, come il disincanto di fronte alla retorica del progresso.
La poca fiducia nelle promesse retoriche e il rifiuto di una esteriorità troppo parente della pubblicità che siamo abituati a vedere oggi.
Eguale atmosfera si respira nelle pagine di Sciascia agli antipodi, per molti versi, al mondo di Lmpedusa.
Anche quando scrive di storia, Sciascia privilegia una forma di razionalità che esclude le passioni e l’ottimismo. Una parola intraducibile “sbentare” può illustrare il modo in cui il siciliano smonta il pistolotto retorico dell’entusiasta di
turno: sbentare vuol dire agitare l’acqua gasata e farne uscire l’aria,
bucare un pallone gonfiato.
Sono atteggiamenti che ritroviamo ne La corda pazza di Sciascia, pubblicato per Einaudi, ma anche nei più noti Il giorno della civetta e A ciascuno il suo. Sciascia vede le cose come sarebbero andate ed è questo il suo punto di forza che lo fa ritenere irrinunciabile e attuale ancora oggi.

Mi sembra di capire che come strenne natalizie, in libreria, per essere attuale, acquisterai questo genere di “classici ”?
Confermo, facendo mie le parole di Eugenio Montale, che "... È quasi certo che chi si lascia sedurre dal vento della moda e acquista il libro di cui si parla non è mosso dall’impellente bisogno di conoscere un’ opera d’arte".