Cultura 14/11/2014

Nessuno che mi porti quanto prima l’olio?!...Non mi sente nessuno?!

Nessuno che mi porti quanto prima l’olio?!...Non mi sente nessuno?!

Oggi che ci manca, per colpa di un'annata senza precedenti, comprendiamo ancor di più il valore culturale di un prodotto agricolo che, ben oltre i confini della sua natura rustica, si carica nello stesso tempo di un insieme di simboli e riferimenti, anche di tipo religioso


“Hoc erat in votis”, “questo era tra le mie richieste”, esordisce il poeta Orazio all’inizio del sesto componimento del secondo libro delle Satire; siamo nel 30 a.C., momento fortemente critico per la storia di Roma - un numero enorme di veterani reclamava terreni come risarcimento per lunghi anni di guerra-, quando lo scrittore descrive entusiasta il suo fondo nella Sabina, in una località sita nella valle dell’affluente dell’Aniene, donatogli da Mecenate nel 33 a.C., “uno scacco di terra non tanto grande, con un orto ed una fonte d’acqua e un poco di bosco…”., il celebre angulus, un posto dove starsene tranquillo, al sicuro dall’ambizione, dagli obblighi e dagli affanni della vita di società, della politica e della corte.
A chiusura della stessa satira, l’elogio della vita agricola si condenza nella favoletta del topo di città e del topo di campagna, in cui si incastona un’intrigante descrizione di una cena signorile, con la presenza addirittura di uno structor, lo schiavo incaricato di preparare i piatti di portata, vere e proprie “architetture” gastronomiche. Nella satira successiva, la settima del secondo libro, Orazio finge di dare la parola ad uno dei suoi schiavi, certo Davo, il quale, data la libertà di parola concessa tradizionalmente agli schiavi in occasione dei Saturnalia, dà libero sfogo ad osservazioni sui costumi di quelli che noi chiameremmo gli ”insoddisfatti”, come lo stesso poeta che, parafrasando, a Roma desidera la campagna, in campagna, volubile com’è, elogia la città, se non riceve inviti a cena si dice appagato dai legumi e da pasti frugali, pieno della sua vita modesta, ma se, poco poco, lo chiama all’ultimo momento tra i commensali di spicco uno come Mecenate, sul tardi, all’accendersi delle torce, esclama con fervore esasperato “Nessuno che mi porti quanto prima l’olio?!...Non mi sente nessuno?!”.

Il quadro è completo, per molti aspetti.
Poco importa distinguere se l’olio d’oliva a cui si fà riferimento nel testo sia allusione maliziosa all’unguento che il poeta avrebbe usato per profumarsi e potersi presentare in “perfetta tenuta” alla fastosa mensa del caro amico oppure se indichi l’olio utile per la lucerna, portata dallo schiavo, che in genere accompagnava il padrone per illuminare la strada passo passo.

Certamente, usando le parole di Orazio e con la benedizione del poeta augusteo, come “resistere alle cene lussuose”?
In un verso successivo la nostra attenzione cade su un termine tecnico, è lo strigile, uno strumento di osso o di bronzo, che veniva utilizzato per detergere la pelle dopo il bagno o dopo gli esercizi atletici, nelle terme, in palestra, nelle arene; quasi sempre, questo particolare strumento a forma di falce o mezza luna, proprio della cultura fisica greca ed utilizzato anche dai gladiatori romani, per evitare escoriazioni e rendere più piacevole l’operazione, ma anche perché fosse più efficace, veniva lubrificato con olio d’oliva, anche perché favoriva l’assorbimento del sudore e dei residui di polvere e terra. Nella satira ottava, quella che chiude il libro, si descrive un sontuoso banchetto e, tra le cose di estremo pregio della stupefacente gastronomia romana del periodo - si intende, ai livelli dei pasti di rango -, non può mancare l’olio d’oliva di “prima spremitura” dei frantoi di Venafro, un’eccellenza territoriale evidentemente, sia per la provenienza che, aspetto per noi ancora più rilevante, per il procedimento di estrazione: è l’olio che “prima Venafri pressit cella”, dove cella indica appunto il nucleo principale della struttura del frantoio (trapetum), qui ad indicare metonimicamente l’azione della spremitura.
Chissà quale sarà stato lo “stato di salute” delle olive, degli ulivi e dei terreni di provenienza di tanto olio, così diffusamente e per tanti scopi impiegato.
Viene da chiederselo oggi, a maggior ragione di fronte ad un’annata difficile per la raccolta delle olive qual è quella ancora in corso, in Italia e non solo, forse tra le più problematiche a memoria dei nostri nonni, forse dei nostri avi, con scarsissime rese quantitative e notevoli pericoli per i tradizionali livelli della qualità nazionale. Al termine della stagione e per molto tempo ancora sarà necessario diagnosticare, interrogarsi su possibili attività preventive e nuove strategie di intervento, per capire dove si va e da dove di può ripartire.
La scienza medica potrebbe offrirci uno spunto di metodo: eventuali, e certamente necessarie, strategie dovranno essere impostate almeno su di un piano di prevenzione diretta e su uno di prevenzione indiretta, per cui la prima potrà agire sugli agenti nocivi individuati, la seconda sulle responsabilità, anche di natura storica e sistemica, sugli ambiti ed i soggetti da coinvolgere.

Secondo la definizione classica della prevenzione nel linguaggio settoriale, pur con le approssimazioni dovute, dato il problema, siamo già nella fase della prevenzione secondaria, cioè quella che interviene dopo l’insorgere dei primi sintomi, viste le cause del fenomeno patologico; secondo il medesimo approccio matematico, nella terza fase si può solamente ridurre il processo di aggravamento e di incremento.
Ma usciamo per un attimo fuori dalla metafora clinica.

Nelle Marche, nel weekend del 18 e 19 e in quello del 25 e 26 ottobre, si è svolto l’OLIO FEST, un evento dedicato interamente alla tradizione ed alla cultura dell’olio extravergine nel Piceno, territorio compreso tra le province di Ascoli Piceno e Fermo, nel settore meridionale della regione, al confine con gli Abruzzi, patria della tenera ascolana, il prezioso frutto DOP da cui nasce il prodotto farcito tradizionale, oltre che di numerose varietà olivicole da cui si ottengono extravergini di speciale qualità, spesso da cultivar monovarietali.
Ricco è risultato il calendario degli appuntamenti, incentrato su due aree tematiche principali, quella dell’olio nella nutrizione e nello sport e quella degli usi extra-alimentari, con particolare riferimento alla cosmesi.

Con encomiabile discrezione e coraggio, rari sono stati nell’arco delle quattro giornate dei lavori i riferimenti all’impietosa annata della raccolta in corso. Come negli intenti, gli appuntamenti della manifestazione sono stati interamente incentrati sulla diffusione della cultura legata all’olio extravergine d’oliva; riflessioni, laboratori, seminari e dibattiti sono stati realizzati allo scopo di promuovere, nel tempo, proficue integrazioni di saperi differenti, su scala territoriale e di sistema.
Una festa “in onore” dell’olio extravergine di oliva, non solo in nome della sua sacrosanta valenza nutrizionale e agricola ma, anche e soprattutto, nella prospettiva e per la diffusione di una cultura dell’alimentazione, quindi dell’educazione al valore legato ai prodotti della terra.
L’OLIO FEST piceno inaugura così un progetto di ampio respiro pedagogico che, a partire dalle prime e fondamentali fasi della formazione scolastica, si propone di porre le basi per attivare e sviluppare processi utili alla costruzione o al riposizionamento di una più adeguata conoscenza dei territori, considerati e studiati nella loro complessità, cioè nella loro peculiare ed organica ricchezza ambientale e paesaggistica, oltre la bellezza visibilistica, nella profondità storica, nelle complesse dinamiche e potenzialità sociali, produttive ed economiche.

Come ampiamente sostenuto da tutti i protagonisti e dai collaboratori dell’evento, l’olio extravergine di oliva può e deve caratterizzarsi come fattore proattivo e comune denominatore di mirati percorsi di educazione e di formazione, dedicati alla cultura ambientale, all’alimentazione ed al patrimonio storico; con l’OLIO FEST si inaugura, quindi, sul territorio piceno, purtroppo, ma forse più significativamente, in una delle peggiori stagioni produttive, una nuova stagione, in cui attivare e promuovere l’integrazione di conoscenze tra loro apparentemente distanti, da quelle agronomiche ed agroalimentari a quelle biologiche, farmaceutiche e cosmetiche, a quelle storiche, storico-archeologiche e storico-artistiche, per una conquista progressiva, diffusa ed estesa ad ogni livello sociale di una nuova forma mentis. Nondimeno, nell’ottica di questo rinnovato atteggiamento mentale e in un approccio trasversale e sistemico, sono di importanza rilevante, nel passaggio dalle parti al tutto, i contributi degli imprenditori, delle aziende e delle scienze aziendalistiche e di altri attori che spesso inconsapevolmente sono interlocutori privilegiati del patrimonio culturale, nelle sue molteplici implicazioni, ridotte o allargate al mondo rurale, agricolo e del paesaggio, a seconda del punto di vista di volta in volta utilizzato.

Sono, inoltre, da considerarsi complementari quegli interventi di partecipazione e di valorizzazione che, pur non avendo rilevanza strategica per l’intero progetto, pure interessano elementi che sono parte, in qualche caso decisiva, del tessuto culturale diffuso del territorio.

Nel contesto dell’OLIO FEST e delle proficue collaborazioni attivate, in particolare tra l’associazione Pandolea, le istituzioni, le scuole, i gruppi di ricerca e le università, sono state introdotte interessanti sollecitazioni e proposte diverse idee per lo sviluppo di azioni di valorizzazione condivisa.

Si è trattato, infine, con scientifica competenza, in forme sperimentali, laboratoriali e ludiche, del tema della cosmesi; è emerso come, nel quadro delle riflessioni sull’olio extravergine e sugli elementi culturali immateriali inseriti in un contesto, l’attenzione ai paesaggi agrari ed umani, che sono manifestazione sistemica di Beni culturali, possa attivare o riattivare iniziative e comportamenti virtuosi per l’utilizzo sapiente ed economico del prodotto olio, anche al di fuori quindi degli usi alimentari, oggi, inoltre, con più stretta necessità, poiché più veloci risultano i processi di offuscamento del rapporto specifico che i prodotti agricoli hanno con la tipologia ma soprattutto con la qualità del paesaggio di appartenenza.

Forma mentis dunque, ma anche remedia formae, “arte del trucco” -l’espressione ci sta troppo stretta - prodotti, espedienti, gesti antichi e sapienti di cura dell’”apparenza” e del proprio stile di vita, “per lei” e “per lui”, applicazioni naturali che nell’antichità, e per molti secoli, sono stati risorse ed espressioni di vitalità, di salute e di benessere.
Nel contesto dei riferimenti a carattere storico, si è citato con peculiare interesse un componimento poetico del tutto particolare nella storia della letteratura latina, il Medicamen faciei femineae; composto dal poeta latino Ovidio, originario di Sulmona, autore tra i massimi dell’età augustea, morto esule a Tomi, sul Mar Nero, per volontà dello stesso Augusto, forse, anche, per aver insistito un po’ troppo sui temi del gossip della corte del princeps. L’opuscolo è interessante anche nella misura in cui si rapporta alle opere maggiori del poeta, gli Amores, l’Ars amandi o Ars amatoria, i Remedia amoris, Heroides, le Metamorfosi, per citare le opere più note.
Purtroppo, i cento versi circa di questo arguto e divertente libellus, se bastano a farci capire la peculiarità del tema, sono in realtà insufficienti a ricavare quanto avremmo potuto chiedere all’autore circa l’universo della cosmesi femminile. Il manualetto, tuttavia, offre un prezioso spaccato della società romana di età augustea – celebre è l’ammissione del poeta stesso in cui esprime l’entusiasmo di essere nato in un’epoca di squisito benessere – mentre, nella seconda parte, descrive cinque ricette cosmetiche, considerate da Ovidio un toccasana per il decoro quotidiano della forma e per le occasioni speciali, tra cui anche quelle di ambito amatorio.
Forse, era negli intenti del poeta un corollario strumentale alle opere dedicate alle tecniche erotiche ed alle storie d’amore; di certo, resta uno scritto di rilievo, per i numerosi riferimenti agli ingredienti ed alle modalità dell’utilizzo di alcune delle principali sostanze utilizzate nella cosmesi femminile, tra le quali l’olio d’oliva era elemento principe quasi in ogni amalgama.
Consultando le altre e più celebri opere di Ovidio, emerge nettamente quanto l’universo dell’arte amatoria avesse continuamente bisogno di specifiche tecniche di preparazione e di imbellettamento; presentarsi nei luoghi giusti, come il teatro o l’anfiteatro, in un certo modo, era d’obbligo, il punto di partenza per iniziare il percorso di seduzione e di conquista amorosa e le tecniche cosmetiche preparatorie sembrano uscite oggi dai palinsesti televisivi dedicati ai temi del trucco e della bellezza in generale, forse, semmai, in Ovidio, con una punta di arguzia in più.
Tutti gli scrittori latini che tra il III a. C. ed il III sec. d.C. hanno trattato di agricoltura citano o trattano l’olio d’oliva, la pianta, il frutto ed il prodotto, con ampie e dettagliate osservazioni sulle caratteristiche e sulle tecniche di produzione, sugli usi alimentari ed extra-alimentari, sulla qualità, sui tempi della raccolta e sulle aree geografiche più conosciute o meglio vocate.
I riferimenti essendo pertanto così diffusi nella storia della letteratura classica, tutte le ricerche e gli studi correlati alla cultura dell’olio d’oliva meriterebbero particolare attenzione e potrebbero rivelarsi, come succede per quelli in corso, fertili di importanti acquisizioni; Apuleio, scrittore e filosofo del II sec. d.C., un autore tra l’altro che non rientra tra quelli che trattarono specificamente di temi agricoli o rurali, in un passo delle sue Metamorfosi o Asino d’oro, un romanzo, l’unico interamente pervenuto ad oggi e molto noto per la favola di Amore e Psiche in esso contenuta, ci descrive una scena commovente di ospitalità nei confronti di un viandante, in cui, tra i gesti di cura e servizio all’ospite, spicca quello di porgere olio per ungersi, è il primo dovere del padrone di casa, perché l’ospite possa più decentemente avviarsi alle terme ed alla palestra, dove proseguirà i suoi trattamenti idroterapici e quelli all’olio, immerso in bagni profumati.

Nell’antichità classica l’olio d’oliva è un elemento della vita di tutti i giorni, una parte integrante della cultura, un alimento indispensabile ed un ingrediente di uso cosmetico e terapeutico importante.
Il termine medicamen, stesso etimo di medicina, nell’opera di Ovidio citata, è sinonimo del termine remedium, ed ha perciò un significato più vicino al quello di “trucco”, quello che serve per intenderci a coprire i difetti, della pelle in particolare, sono applicazioni e sostanze, medicamina formae, belletti, tinture, rimedi di bellezza. Interessa qui soprattutto segnalare che, mentre le nozioni implicite nei termini medicina e medicamentum, come quelle contenute nel termine greco phàrmacon, si collocano a mezzo tra ciò che fa bene e ciò che può anche non far bene, sono cioè voci medie e ancipiti, l’olio d’oliva, pur se entra a far parte del medicamento di turno, viene citato e descritto negli autori di età classica sempre per le sue virtù curative, alimentari, cosmetiche, terapeutiche, salutari.
A differenza di quanto si esprime circa i farmaci e le medicine dell’età antica- quindi in età pre-galenica, che sono note più per il fatto di modificare e alterare la naturale sostanza delle cose, per cui possono intendersi anche come filtro, droga, incantesimo, veleno, i riferimenti letterari all’olio d’oliva ne sottolineano sempre l’utilità, anche se, è importante ribadirlo, esso era elemento indispensabile anche per amalgamare tutte o quasi le restanti preparazioni che entravano nelle pozioni e nelle misture usate ai fini curativi.
La scientia medica, diversamente da come noi oggi la intendiamo, è nell’antichità l’arte, cioè la tecnica o le tecniche, dei rimedi risanatori.
Cicerone definisce, infatti, la medicina come ars valetudinis, un insieme di pratiche sperimentali insomma, ed il termine rimane ancorato sempre all’idea della magia e del veleno, come a quella del cosmetico e a quella del condimento, della preparazione in generale.
In tutto questo rileva osservare non solo la presenza dell’olio d’oliva in molte delle applicazioni, quanto il fatto che esso fosse adibito a specifici trattamenti terapeutici e, non secondariamente, di toletta, per cui, di conseguenza, altissimo era il livello di specializzazione della produzione ad hoc.
La primaria e quotidiana necessità e l’uso così diffuso dell’olio extravergine si riflettono perfettamente nell’atteggiamento culturale per cui il prodotto agricolo, ben oltre i confini della sua natura rustica, si caricava nello stesso tempo di un insieme di simboli e riferimenti, anche di tipo religioso.
Un autore come Catone si riferisce al prodotto olio con il semplice termine factum, che è come dire l’”azione in sé”; in greco antico, una vicinanza semantica è evidente nel termine èrgon, che entra nella composizione del lemma che indica il frantoio, elaiourghèion o elaiotribèion, il corrispettivo del latino trapetum, con chiaro riferimento all’azione, alla fatica della mola, all’energia impiegata nelle operazioni di estrazione e spremitura.
Nella lingua greca esiste un termine addirittura per la confezione dell’olio, l’elaiourghìa, uno per l’olio che si confezionava per la depilazione, ma soprattutto è attestato quello che indica la provvista di olio per ungere, elaiochristìa (christòs è parola che conosciamo bene nella cultura cristiana).
E’ inoltre interessante notare che in greco il termine pharmachèus è spesso sinonimo di elaiochùtes, che è “il curatore con l’olio”, in cui, della nozione ambigua di farmaco, si trattiene solo quella relativa alla sfera curativa.
Oltre alla dimensione tecnica e di specializzazione della produzione, riflessa tanto puntualmente nella lingua, in Grecia come a Roma, è opportuno considerare quindi le implicazioni di carattere religioso e simbolico: basti qui ricordare che la rocca su cui si fà nascere l’ulivo è quella dell’acropoli di Atene, mentre la pianta dell’ulivo e l’oliva, in greco elàa / elaìa, indicava metonimicamente il limite “sacro” della città di Atene, e quindi rappresentava la città stessa. Vale anche la pena sottolineare che già nel VI sec. a. C. il legislatore ateniese Solone si preoccupò di emanare una legge, la prima sulla tutela dell’albero di ulivo, che prevedeva la pena di morte per coloro che avessero osato deturpare o estirpare o abbattere un albero; lo storico Tucidide, nel V sec. a. C., assegna alle origini della pratica della coltivazione dell’ulivo un preciso punto di svolta, la fine dello stato di barbarie per i popoli ellenici, quindi un valore culturale ed identitario primario.

In sintesi, mi pare, l’ulivo rappresenta simbolicamente il limite insieme geopolitico e cronologico della civiltà occidentale.
Le scienze dell’antichità, tra cui l’archeologia, in rapporto con le altre discipline, possono notevolmente contribuire allo sviluppo dei processi conoscitivi che debbono essere alla base di ogni operazione di tutela e di valorizzazione, o meglio, di valorizzazione e tutela.
Di certo, l’avvenire non sarà lo specchio del passato, né è vero il punto di vista contrario: tuttavia, il futuro è parte della storia, sarà parte del processo storico, è la storia che ha necessariamente da essere.
Il futuro, perciò, non può che essere concepito come sviluppo della tradizione: nel termine stesso futurus è implicita l’idea del passato, la sua radice etimologica, dinamica e concettuale, la stessa della voce fui.
Nel pàntheon greco c’è una divinità che porta il nome di una funzione squisitamente psicologica, Mnemosùne, la Memoria, un’attività che presuppone sforzo, allenamento, esercizio in continuo movimento tra la dimensione del tempo e quella dell’io; ricordare è per gli antichi una conquista continua e presiede alla funzione poetica, cioè all’atto più puro della creazione, che i poeti condividono sin dall’età arcaica con gli aedi-veggenti ai quali è dato dalla divinità di conoscere quello che ai comuni mortali non è possibile, cioè il tempo delle azioni passate e quello delle azioni avvenire, in una parola la sapienza, la sophìa, ragione per cui il passato compreso e svelato non è solo l’antecedente del presente ma è la sua sorgente, nel senso che permette di capire il divenire nel suo insieme, il senso del tutto, dalle origini del còsmos alla fine delle generazioni.
Le antiche civiltà occidentali, e altre civiltà, non interrogavano il futuro per regolare la loro vita presente, anzi, il dominio delle azioni era situato nel passato delle origini e non esisteva l’ideale di plasmare il cosmo con il proprio ingegno e le proprie mani, a differenza dell’uomo contemporaneo.
Oggi, dentro il domino imperante della tecnologia, è necessario interrogarsi se, come nell’antichità, quindi con un radicale e rinnovato approccio filosofico, non si debba tornare ad esaminare a fondo il razionale e l’irrazionale degli eventi del passato, con un’opportunità in più, semmai, quella di mettere al servizio di una nuova prospettiva conoscitiva le strumentalità digitali e le applicazioni informatiche avanzate.
L’olio extravergine d’oliva è un bene culturale, meritevole di tutela e valorizzazione, rientrante nel patrimonio culturale costituito dai molteplici fattori che ne sono presupposto e contesto, il territorio, l’insieme degli elementi unici ed inimitabili, place specific e tradizionali, cioè storici e di sapienza; la difficoltà che oggi si riscontra nell’educare ad utilizzare o a pensare all’olio extravergine di oliva come bene del nostro patrimonio sta in quella dimensione irrazionale, rientra appieno nella logica percorso storico.

Secondo la complessa definizione di patrimonio culturale intangibile presente nella Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio culturale intangibile di Parigi, 2003, in vigore dal 2006, per patrimonio culturale intangibile si intende, parafrasando, l’insieme delle pratiche…delle espressioni, delle conoscenze, il saper-afre, come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti, gli spazi associati, che le comunità, i gruppi e gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Esso, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura, alla storia, al sistema di valori, dando loro un senso di identità e di continuità, promuovendo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana (…).
Ancorché tutti siano convinti dei contenuti di questa descrizione, perfettamente riferibile all’olio extravergine, al suo paesaggio, alle implicazioni culturali, per garantirne la tradizionale sopravvivenza e un’adeguata messa a valore sarà necessario riallacciare con cura le fila che tengono faticosamente insieme la storia passata e quella futura, se si preferisce, quella precedente e quella avvenire, nelle logiche del còsmos.
La tutela del Patrimonio culturale, a norma degli articoli 2 e 3 del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio (L. 42/2004), presuppone “…un’adeguata attività conoscitiva…”; il processo di conoscenza necessario alla conservazione, finalizzato alla pubblica fruizione, non può che essere necessariamente complesso, assiduo, anzi perenne, progressivo, sistematico, organico, necessita di tutto quello che la storia lunga almeno 4000 anni vi può conferire, poiché il prodotto olio, come altri in un territorio, non può ridursi ad episodio isolato, in sé eccellente, tanto meno se il contesto non esprime o non sa esprimere la propria identità, la propria consapevolezza di sé, la complessità dinamica che ha ricevuto in eredità e da trasmettere, non solo come memoria dell’antico ma come processo vivo di evoluzione e continuo miglioramento della qualità, delle cose e della vita.
Il prodotto di un determinato contesto territoriale, indipendentemente dalla sua destinazione d’uso, è inscindibile dal sistema degli elementi contestuali: il produttore, quindi, come presupposto e conseguenza, offre nel prodotto il “come si vive”, il suo “stato di salute”, quello del sistema e quello del suo angulus oraziano. Nel caso dell’olio extravergine, non è sufficiente, crediamo, esprimere un giudizio di eccellenza sul prodotto ad ogni buon raccolto annuale e urlare allo scandalo di fronte ad un raccolto disastroso, come quello dell’annata corrente. Garantire nel tempo ad un prodotto tradizionale i “livelli minimi uniformi di qualità” è un’impresa difficile e complessa: lo sanno bene i produttori e certamente lo sapevano anche gli imprenditori agricoli dell’evo antico, come quel Barbula, cittadino romano del piceno, che, a metà del I sec. a. C., nella sua villa situata nei pressi dell’attuale comune di Altidona, in territorio fermano, allora Firmum Picenum, firmava con sigillo le anfore olearie che venivano commercializzate in tutto il bacino del Mediterraneo, a garanzia della qualità riconosciuta dei prodotti, in particolare delle olive e dell’olio del territorio piceno, oltrechè del vino; le rotte commerciali, partendo dal porticciolo dell’odierno Fosso San Biagio, in località Santa Maria a Mare, arrivavano tramite il porto di Massalia, l’attuale Marsiglia, fino ai remoti confini d’oltralpe e dell’estremo nord.

Per produrre eccellenze territoriali - come oggi ci piace tanto chiamarle -, è presupposto necessario un sistema di qualità globale: tecnica e tecnologia, per quanto siano strumentalità indispensabili, sono comunque componenti della complessità. Una volta ancora ci viene in soccorso la lingua greca che alla parola epistème risponde con i significati di scienza, sapere, cognizione, ma anche con quelli di arte, perizia, abilità, applicazione, studio, disciplina, in genere associata alla parola tèchne, ars in latino.
Bacone auspicava che la scienza moderna fosse activa et operativa, basata sulla conoscenza e sulle capacità tecniche ed inventive, superando quindi il confine netto tra sapere speculativo e teorico e discipline applicate; ora questo ideale sembra assodato e dovrebbe essere alla base di ogni seria politica di pianificazione degli interventi, o degli interventi da non fare.
E’ curioso che nel II libro della sua opera intitolata De divinatione, Cicerone ci dice che quando il contadino vede un ulivo in fiore ritiene che vedrà anche i frutti, e tuttavia qualche voglia si sbaglia (…).
Siamo al punto: niente è più appropriato per cercare di capire la complessità del circuito virtuoso che lega la tutela alla valorizzazione del patrimonio culturale che la metafora medica da cui siamo partiti.
La nuova sfida metodologica e diagnostica consisterà nel trovare i processi cognitivi più adeguati per fare in modo che un territorio funzioni come sistema, che, sulla base della sua storia, magari millenaria, e alla luce delle nuove tecnologie, possa esprimere una qualità diffusa del benessere dei suoi cittadini e dei suoi prodotti tradizionali.
Non si tratta quindi di stabilire un primato di antichità e di competere su questo o su chi fa meglio cosa, piuttosto di sapere chi si è e perché, quindi di essere consumatori consapevoli e moderatori del patrimonio culturale ereditato. Anche alla luce della prima e feconda esperienza pedagogica del nostro OLIO FEST, crediamo di poter riconoscere che la partecipazione diffusa ai processi culturali complessi possa essere una leva primaria, oggi che i nuovi mezzi di comunicazione, le applicazioni informatiche avanzate, la realtà aumentata, pervenuta anche nei musei, fanno della comunità civile un’unica piattaforma global e social.

In particolare, sarà necessario analizzare quale sia la prospettiva di valore “economico” generato dal brand territoriale, come quello olivicolo, e dall’assett, magari compreso tra la gastronomia ed il wellness, promuovendo un’adeguata azione di valorizzazione del paesaggio e dei suoi abitanti, perché se ne aumenti la qualità e poi la qualità percepita.
Inoltre, non basterà moltiplicare progetti su progetti, come dimostrato dalle più illuminanti esperienze applicate ai distretti culturali: solo la gestione di sistema e a regime sarà in grado di generare quei processi di capacitazione, di abilitazione collettiva e dei territori, in una logica condivisa e integrata di tutela e valorizzazione delle potenzialità di tutto il sistema.
Nella stessa logica, anche in un distretto agroalimentare o a matrice diversificata, per la sopravvivenza e la competitività dei suoi contenuti culturali e delle identità dinamiche degli abitanti, è quantomeno indispensabile ritenere centrale il ruolo della formazione, a tutti i livelli, da quello scolastico primario e secondario a quello universitario e post universitario, nell’ottica del long life learning, cioè dei processi di apprendimento e crescita culturale continui.
In un’ottica occupazionale, infine, nuovi profili professionali, se riconosciuti a livello nazionale, potrebbero innescare processi virtuosi ed effettivamente concreti, cioè efficienti ed efficaci, di buone pratiche di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale; nuove professionalità manageriali, di cui l’Italia è carente con tutta evidenza, potrebbero condividere con le istituzioni, anche locali, la regia di azioni di governo e gestione di tutti gli operatori coinvolti nelle diverse azioni di promozione del territorio, divenendo la chiave di volta nella conduzione delle diverse dinamiche che mettono in relazione una molteplicità di attori e portatori di interesse, su scala locale, nazionale ed internazionale. Una soluzione gestionale dunque che tuttavia non potrà fare a meno delle istituzioni e degli abitanti del territorio di riferimento, i quali, formandosi e abilitandosi a comprendere il valore delle singole azioni di tutela del patrimonio storico e del paesaggio, valore sociale, relazionale, civile ed economico, rappresenterebbero essi il vero l’anello forte della catena del valore, il capitale umano diffuso, aprendo il territorio stesso ad un processo articolato e continuo di nuova produzione di valore

di Cristiano Berilli

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