Cultura
Ho dormito da un’amica
Piazza XXIV maggio, loft sporcato di bianco, perfetto senza un oggetto o una poltrona di troppo. Lei è siciliana, dolce e inquieta. Io vivo in campagna. Sarà un po’ una corte d’amore. Preferisco sempre arrivare in anticipo
24 marzo 2012 | Nicola Dal Falco
Ho dormito da un’amica, per una notte, nella fabbrica dove lavorava il padre di Einstein.
Loft, sporcato di bianco, perfetto senza un oggetto o una poltrona di troppo.
Lei è siciliana, una contessa vissuta a Napoli, milanese, dolce, inquieta, che scrive articoli e compra case per rivenderle. Le sceglie solo se le piacciono. Ha, però, paura dei ladri che sono entrati e, quindi, si chiude a chiave in camera.
Fa caldo, quel primo caldo di pianura, pesante anche dove trovi un po’ d’ombra. L’appuntamento con Y. U. è in un bar di piazza XXIV Maggio, zona sud, di fronte alla vecchia porta della città. Preferisco sempre arrivare in anticipo, vedere il posto da totale estraneo e, questa volta, l’indirizzo aiuta.
Me l’ha specificato, le serve da ufficio, è brutto, ma pulitissimo! Come si chiama? In vino veritas, sull’angolo, sotto i portici, accanto al Milan Point, brutale - che quando arrivo ha appena alzato la saracinesca.
Mi immagino un tipo volitivo, che nomina cose e persone per quello che sono, che stabilisce continue relazioni con il mondo, pur avendone una visione malinconica e, per cortesia, l’aspetto fuori dal bar, seduto ad un tavolino.
Invece, arriva, passando davanti decisa, non volge lo sguardo in giro ed entra, salutando la ragazza al bancone. È proprio il suo ufficio. Primo punto.
Non mi resta che bussare, mostrando il sorriso di chi giunge in lieve ritardo.
Io vivo in campagna, tra Lucca e il mare, sotto lo schiaffo materno del mare, ma Y. che abita a due passi da qui, porta un fagotto: un pila leggera di libri, avvolti in un pezzo di stoffa. Stoffa tessuta di vari colori, forse anche disegni. Dice, già, cosa sarà questo viaggio, questo libro. Secondo punto.
Le ho scelto un regalo: una poesia, un frammento su carta tedesca e acquarello. Quattro pagine, senza copertina, aereo, ma non glielo dò subito. Mi chiede cosa prendo. Nulla. Lei, un espresso.
Come ad un esame, domande e risposte si susseguono con reciproca determinazione. Il professore che ti convoca chiede, affermando e il maturando risponde, cercando una logica.
«Cosa sono e vogliono i giapponesi: non hanno paura della morte, molta, invece, della natura. Chi spiega troppo è, certamente, un bugiardo». Penso che hanno ragione, ma il barocco, i madrigali di Monteverdi, su, su fino al melodramma, a Norma, a Tosca.
«Per noi - dice - è essenziale il silenzio che si disegna tra due parole: l’ombra del suono che proietta le vere intenzioni». Sì, ma sempre di un lamento si tratta, dell’irriducibile forza d’amare o semplicemente di sperare.
«Frasi brevi». D’accordo. «Voi siete dei feticisti». Preferirei dire dei devoti, magari un po’ superstiziosi; esiste una volgarità travestita da bisogno, dipende dal sentimento e dal perché si fa un gesto.
Forse, il confine è tra segno e simbolo. Una borsetta è un segno di classe o di clan, un fagotto di stoffa preziosa un simbolo!
Siamo simili, quanto posto hanno le donne, la bellezza, la gloria e l’infinito sforzo di conquista?
C’è una cosa, però, che mi turba, mi mette sulla difensiva: è la negazione psicologica dell’abbandono, antidoto al dolore, alla tortura.
Ma perché, non fare almeno uno sforzo di educazione, ammetterlo in via di principio?
Qui, però, s’apre un intero mare di diffidenza.
Faremo un libro dove s’incrociano il sapore e il tatto, le pretese dell’uno e la concretezza dell’altro, il bello e lo sciocco, sperando di aiutare i migliori.
Sarà un po’ una corte d’amore, con molte prove anche assurde, perché ogni viaggio permette di cambiare punto di vista con ironia, slancio e qualche ferita.
Ora ci alziamo, le ho dato la poesia e si appresta a pagare il suo caffé. Mi fermo e l’aspetto, ma lei è ancora a casa sua, nel suo ufficio. Non devo restare lì, ma congedarmi.
Terzo punto.

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