Cultura

Ecco perchè mangiare uva e lenticchie a Capodanno porta fortuna

Ecco perchè mangiare uva e lenticchie a Capodanno porta fortuna

Oggi le lenticchie e l’uva vengono consumate, pur se a Capodanno, senza nessun particolare cerimoniale, nel passato ciò avveniva invece attraverso rituali e regole ben precise. Usanza di buon augurio per propiziarsi ricchezza e fortuna

19 dicembre 2025 | 20:15 | Giulio Scatolini

La spiegazione che viene data sull’origine di questa credenza è che sia la lenticchia che l’uva richiamino, con il loro aspetto, la forma delle monete che saranno, grazie a tale rito di appropriazione (mangiarle), copiose ed abbondanti nell’anno a venire.

Anche quando i prodotti non erano, come adesso, di moda, o addirittura dichiarati patrimonio immateriale dell’umanità, mai nel cenone di fine anno si dimenticava di inserire nel menù, lenticchie e uva. Magari non saranno state lenticchie di Castelluccio e uva zibibbo di Pantelleria, ma la speranza che questa usanza fosse di buon augurio per propiziarsi ricchezza e fortuna ha reso, tale credenza, indissolubilmente legata, nei secoli, ai riti del Capodanno.

La cucina è stata infatti nelle epoche passate “un’operazione” eminentemente rituale, scandita sul doppio binario dei cicli stagionali e dal calendario liturgico orchestrato dalle lune e dai soli, dai santi e dai patroni, dalle vigilie e dalle feste legate al ciclo agrario, dal carnevale e dalla quaresima, dalle nascite, dalle morti e dai matrimoni. Va tuttavia evidenziato che oggi, anche in occasioni così particolari, non riusciamo più a cogliere il senso profondo del piacere del cibo della festa, che invece una volta, da un lato costituiva la realizzazione di un desiderio alimentare quasi perennemente frustato e dall’altro risultava indubbiamente e fortemente “insaporito” dall’attesa dell’evento festivo, ossia dal contesto sociale e culturale nel quale veniva assunto. 

Così se oggi le lenticchie e l’uva vengono consumate, pur se a capodanno, senza nessun particolare cerimoniale, nel passato ciò avveniva invece attraverso rituali e regole ben precise. Prima di tutto, visto che ci si trovava in inverno e l’uva non poteva essere acquistata per l’occasione, si doveva porre attenzione nel conservarne qualche grappolo al momento della vendemmia avvenuta due-te mesi prima.

Il numero degli acini da mangiare, perché rari e preziosi, non era mai quindi un numero né alto né casuale.

Così nelle Marche appenniniche, come ci suggerisce un saggio, (1) alla mezzanotte precisa di San Silvestro bisognava mangiare tutti d’un fiato nove acini d’uva, facendo attenzione a non farne cadere nessuno, perché sarebbe stato di cattivo augurio; allo stesso modo, in Emilia (2) si credeva che ad ogni acino inghiottito, corrispondesse un milione di lire che si sarebbe guadagnato nell’anno successivo; va detto, certo, che all’epoca “il milione” valeva molto di più di ora e ne bastavano pochi per essere ultraricchi.

In Abruzzo invece (3), le lenticchie si mangiano la notte di Natale all’interno di una grande cena composta di sette minestre, una delle quali appunto sicuramente di lenticchie, apportatrici di fortuna.  Questo legame alla più importante festa religiosa ci rimanda all’ipotesi di alcuni studiosi (4) i quali sostengono che il valore propiziatori della lenticchia abbia trovato origine nel famoso episodio della Bibbia in cui si racconta come Giacobbe, figlio di Isacco, avesse acquisito la primogenitura dal fratello Esaù che, stanco e affamato, accettò di scambiarla con un piatto di questo “prezioso” legume. (5) 

Per l’uva il significato beneagurante potrebbe rappresentare la prosecuzione, fino ai tempi moderni, di una antica e universale identificazione di questo frutto prezioso della terra, come simbolo di abbondanza e prosperità.

Secondo alcune tradizioni (6) tuttavia l’uva per essere veramente apportatrice di ricchezza deve essere regalata. Ciò farebbe ritenere tale credenza alle antiche “strenae” (da ciò deriva l’attuale “strenna”) i doni che i Romani si scambiavano tra di loro alle calende di gennaio, come “bonum omen”, presagio favorevole per l’anno che stava cominciando. 

Secondo da quanto riferito dallo scrittore latino del IV sec. d.C. Simmarco (7) questa tradizione dello “scambio” di doni viene fatta risalire addirittura al re sabino Tazio. Questa cerimonia consisteva nell’offerta augurale di rami d’alloro e d’olivo colti nel bosco sacro a Strenia, dea sabina della salute e della forza. Tali doni consistevano pure di frutti dolci come fichi, datteri e miele; tuttavia, nel tempo, quando tali  frutti iniziarono ad essere  doni troppo umili, si inserirono, tra questi, anche monete d’argento o di bronzo. Questa ultima usanza romana delle strenae in monete, viene tra l’altro ricordata nei “Fasti” di Ovidio.

In questo episodio si assiste ad un dialogo tra il poeta e il dio bifronte Giano che appunto presiede la fine dell’anno vecchio e l’inizio di quello nuovo.

Dapprima il dio Giano spiega che questi scambi di doni esprimono il reciproco augurio che l’anno che sta iniziando scorra ed arrivi alla fine con grande dolcezza simile appunto a quella dei fichi, dei datteri e del miele.

Successivamente infine Giano alla fintamente ingenua domanda di Ovidio che chiedeva perché si regalino anche delle monete, che risponde: “Oh come non conosci il tuo tempo, tu che credi che sia più dolce del denaro che si riceve”. (8)

Tale usanza di scambiarsi doni e strenne all’inizio del nuovo anno aveva una così alta valenza religiosa e simbolica presso i Romani, che la Chiesa cercò in ogni modo di condannare ed interrompere l’usanza di questo rito pagano. Famose, a tale proposito, sono le esortazioni di S. Agostino, riportate nei “Sermones”, in cui invita a testimoniare contro la “sfrenata licenza” dei pagani così se “ Essi si scambiano le strenne, voi fate le elemosine; se essi si divertono con canti lascivi, voi ricreatevi con l’ascolto delle Scritture”. E infine “non fate le strenne, fate piuttosto le elemosine ai poveri” (S. Agostino; Sermones 198, vv, 2-3).

“Tuttavia nonostante le invettive e le reprimende scagliate dai … campioni della fede, i cristiani, in tutte le regioni dell’Impero continuavano volentieri a celebrare la festa pagana dell’inizio anno” 

Così a più riprese e con diverse forme troviamo veri e propri anatemi contro quei cristiani che celebravano le calende di gennaio al modo dei pagani.

Tuttavia ciò non ebbe grandi risultati tant’è che oggi, dopo tanti secoli, anche i religiosi, a partire dall’umile parroco sino al cardinale e forse di più, si sono “rassegnati” e a Capodanno  possono mangiare  uva e lenticchie, augurandosi, in cuor loro, da una parte, con laica speranza, il benessere dell’agiatezza, e dall’altra, con religiosa  fede, la “ricchezza” della pace.

Tanti Auguri ai lettori di Teatro Naturale!!!

Bibliografia

01 Eustachi-Nardi; Contributo allo studio delle tradizioni marchigiane. 1958

02 A. Borgatti; Folklore raccolto a Cento. 1968

03 A. De Nino; Tradizioni popolari abruzzesi. 1970

O4, 09 P. Bartoli; Tocca ferro. 1994

05 Genesi; 25, 29-34. 2000

06 B. Mavene; Il Capodanno a Castel Bolognese 1894

07 Simmarco; Epistole X, 28.

08 Ovidio; Fasti I° vv. 185-192

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