Cultura
Pantano dei granchi
Tra giovani ulivi e olmi mischiati in cosciente abbandono, si è svelata un’ecatombe. L’occhio ha cercato un equilibrio di vuoti e pieni. L’ordinato disordine si è fatto composizione, da ludibrio a sintassi di forme
10 marzo 2012 | Nicola Dal Falco
A Pantano non manca l’acqua. Una volta c’era un fontanile che chiacchierava fitto con la strada bianca e nei giorni d’afa faceva accelerare il passo anche a chi non avesse la gola proprio secca.
L’acqua che scorre ha lo stesso potere di una voce che canta alla finestra o si perde nelle lontananze del campo.
Allora, salendo dal basso, si raggiungeva il fontanile passando davanti alla casa e costeggiando la scala esterna.
Facile immaginarsi che qualcuno, o molto giovane o molto vecchio, potesse usarla come un belvedere sopra il timido viavai di animali e persone, dirette al podere, verso Cerqueto ed oltre, a Castel di Fiori.
Ripensandoci bene, acqua e parole appartengono al genio del luogo, restano legate all’evidenza del nome e a quel paracarro sul lato della casa che guarda a sud.
Non era una strada larga e chi salisse o scendesse camminava avendo per un buon tratto sottocchio la facciata di pietra.
Una parete rosata e grigia con ampi squarci ricuciti a mattoni.
Tratti di muro che assomigliano a quadrati di carne viva.
Per il resto, dove la tessitura di piccoli sassi e schegge di cotto circonda le pietre una ad una, affiora una geometria di squame, un paziente gioco d’incastro.
Ora, la strada è stata spostata a una certa distanza, abbracciando la casa con una generosa curva, così che l’ampiezza dell’angolo e la siepe che la delimita interrompono il frastuono delle automobili e per qualche secondo sembra che ne siano come inghiottite.
Quell’improvviso silenzio resuscita una suggestione più forte: un rumore notturno di passi a cui, dopo il primo ringhiare dei cani, risponda la stalla. In origine, tutto il piano terra era un’unica stanza di fermenti e tepori.
Sopra, ricorda qualcuno, il massaro, di tanto in tanto, interrompendo il discorso, alzava il mattone del pavimento, accarezzando con l’occhio il dorso delle chianine.
Probabilmente il fontanile distrutto raccoglieva l’acqua della sorgente che si trova nel bosco e goccia dal pendio, in un punto folto, come un inguine, di ciuffi d’equisetum.
L’anno scorso, lavorando intorno alla vecchia cisterna, sradicato l’ultimo masso lungo il fosso, è apparso in tutto il suo battagliero stupore un granchio, ferito di striscio dal colpo di pala.
Proprio un granchio che mi ha fatto ricordare le reliquie di corazze e di chele, trovate sparse nel pratone di fronte alla casa.
Le avevo pure raccolte e disegnate, ma senza che la cosa mi spingesse a farmi delle domande. Mi rendo conto che certe sorprese finiscono immediatamente e misteriosamente su uno scaffale a vivacchiare in attesa.
Forse, il vero motivo è che così come sono uscite rientrano nello sfondo, nella scena che contempli, ricreando ogni volta un affetto e una comprensione vicini alla macchia, al gioco di piani, ad una certa dose di luce più che al singolo, conturbante dettaglio.
Quando, finalmente, lo fissi, la vaghezza d’insieme è già dissipata.
Sono passati dei mesi dall’agonia del granchio alla fonte e un’altra visione si carica di senso.
Oltre il pratone, tra giovani ulivi e olmi mischiati in cosciente abbandono, si è svelata un’ecatombe d’estate.
In meno di un metro quadrato sono ammucchiati i resti di una ventina di granchi. Non so quale possa essere il motivo.
Forse un viaggio interrotto, il trofeo di un nemico naturale o un luogo d’esequie? Più misuro lo spazio che li contiene e più riconosco la formidabile mano del caso, sempre imitata a partire dalla stanza non spazzata, dall’asaraton oikos, quel tipo di mosaico ellenistico, ideato da Sosos per la stanza del triclinio e decorato con resti di cibo.
Come lì anche nel prato, l’occhio ha cercato un equilibrio di vuoti e di pieni. L’ordinato disordine si è fatto composizione, da ludibrio a sintassi di forme.

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