Editoriali
La mancanza di progetti industriali per l’olio di oliva italiano è la morte del settore

Mancano imprenditori oleari capaci di piani industriali, poiché cresciuti solo alla mammella del rendimento finanziario, con la politica che li ha blanditi e assecondati. Per rinascere serve prima morire
24 marzo 2025 | 12:00 | Alberto Grimelli
Un piano industriale guarda al reddito dell’azienda, un piano finanziario al rendimento dell’impresa.
La differenza è sostanziale.
Un piano industriale ha una visione di medio-lungo periodo che punta a creare le condizioni per generare un reddito per l’imprenditore e il tessuto produttivo che lo circonda e da cui dipende.
Un piano finanziario ha una visione di breve-brevissimo periodo che punta a creare le condizioni affinchè l’investimento generi un rendimento uguale o superiore a quello dell’impiego dello stesso capitale in altre attività.
Un piano industriale guarda a un territorio, più o meno vasto, al suo sviluppo, alla sua “armonia” sociale ed economica, perché da questi elementi dipende anche il reddito dell’imprenditore.
Un piano finanziario guarda ai fattori produttivi come elementi svincolati da qualsiasi territorialità, valore sociale o civico, approvvigionandosi laddove serve, alle condizioni più convenienti, per generare i migliori indici di bilancio, azionari e finanziari per l’impresa.
Un piano industriale, per sua stessa definizione, è resiliente.
Un piano finanziario, per sua stessa definizione, è volatile.
La colpa o il dolo prevalenti della classe manageriale e imprenditoriale olearia nazionale sono stati quelli, da qualche decennio, di passare da progetti industriali e a progetti finanziari, così sancendo la propria condanna a morte.
Metà, o forse più, dell’industria olearia nazionale è in svendita, senza un ricambio generazionale, poiché ha smesso di essere imprenditoriale e industriale, diventando “movimentatrice di denaro”.
Ha rinunciato, qualche decennio fa, a un ruolo di guida del settore, di progettualità, innovazione e spinta propulsiva, per inseguire il miraggio della “globalizzazione” olearia: acquistare i fattori produttivi (olio) laddove costano meno, per generare rendimenti superiori a quelli possibili con olio italiano.
Oggi l’olio di oliva italiano manca e l'importazione è una triste necessità. Qualche decennio fa non era così e fu solo la scarsa lungimiranza di quella classe imprenditoriale, che in buona parte è quella odierna, a provocare il declino sotto gli occhi di tutti.
Gli attuali investimenti in olivicoltura di qualche imprenditore oleario non sono ravvedimenti operosi ma solo artificiali operazioni di patrimonializzazione o di assestamento finanziario per rimandare, ove possibile, l’inevitabile: fallimento o svendita.
Purtroppo la classe dirigente e industriale non è credibile perché incapace di piani industriali: anche qualora presenti, sono dei semplici piani finanziari mascherati.
Ancor peggio la politica, che ha assecondato la classe imprenditoriale, coprendo la mancanza di piani industriali, con relativa generazione di redditività per i territori, con la distribuzione di prebende. Fino ad arrivare all’aberrazione del reddito di cittadinanza.
Anche l’attuale Piano Olivicolo Nazionale, che è un work in progress, non è un piano industriale, non parla di reddito, ma è solo un collage di buoni propositi volti a elargire contributi e finanziamenti, utili e durevoli per le prossime elezioni.
Prima di una ricostruzione del sistema olivicolo-oleario italiano, occorre una rivoluzione che sancisca l’avvio di una nuova stagione, con nuovi attori, capaci di progettualità industriali.
A trovarlo, servirebbe un nuovo Adriano Olivetti, e magari anche un Antonio Segni e un Alcide De Gasperi. Personaggi discussi e discutibili ma che un pregio avevano di sicuro: visione.
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Gigi Mozzi
25 marzo 2025 ore 16:11caro Direttore
come sempre, sono rimasto indietro di un giro.
non sono ancora arrivato al piano industriale e nemmeno al piano finanziario:
sono fermo al piano dove ci sono il prodotto e il consumatore.
forse, conviene partire da lì, per chiederci, senza retorica: di che prodotto stiamo parlando ?
alcuni anni fa, a seguito di una querelle con un santone del settore,
avendo pagato una multa salata per avere scambiato una onorevole certificazione con un indirizzo, mi sono sentito spiegare che l’olio da olive è tutt’uno, un solo mercato e che era una bestemmia cercare di identificare segmenti che avevano a che vedere con valutazioni qualitative.
nessuno ha interesse a proteggere l’olio extravergine di oliva italiano:
tanti ci hanno provato, senza mai arrivare,
ci ho provato anch’io con gli allora Mastri Oleari (si ricorda la prima certificazione, la mitica HS ?) ho pagato il dazio per aver cercato di costruire una masterbrand in grado di salvaguardare l’idea, ho suggerito la strada dell’olio Artigianale, che Sodano ha percorso con grande impegno,
ho perfino proposto ad un presidente di consorzio un osservatorio (a distinguere la merceologia, la categoria, la tipologia) con relativi interventi organizzativi e un possibile progetto per lo sviluppo.
poi ce la siamo raccontata, al bar, i famosi quattro amici.
nessuno ha interesse a proteggere l’olio extravergine di oliva italiano:
certo, non i grandi imbottigliatori, che vivono bene sul deficit produttivo,
nemmeno i veri, grandi, nobili produttori che vivono sulle loro forze
e per i quali, giustamente, vale “ciascun per se, Dio per tutti”.
del resto, pensare che un insieme di produttori (o di Consorzi) faccia il mercato
significa credere che un insieme di mattoni sia una casa e che una casa sia un insieme di mattoni: il prodotto lo fa il produttore, il mercato lo fa il consumatore.
nessuno ha interesse a proteggere l’olio extravergine di oliva italiano:
lasciamo stare le certificazioni che certificano tutto, ma non quello che servirebbe, invece, cherchez l’argent.
caro Direttore, cherchez l’argent non vuol dire quello che pensa Lei:
cherchez l’argent, vuol dire cercare quello che paga l’iva.
di cui non si hanno notizie.
Gigi Mozzi