Editoriali

Difenderci dall’olio di oliva che sa di pipì di gatto: la scelta a scaffale

Difenderci dall’olio di oliva che sa di pipì di gatto: la scelta a scaffale

Fino a un paio d’anni fa il 75% dell’olio di olvia consumato in Italia era venduto nella GDO. E gran parte di quell’olio aveva un denominatore comune: il sentore di “pipì di gatto”

18 luglio 2025 | 12:00 | Piero Palanti

Biodiversità, stagionalità, tradizione, territorialità... e quante altre parole ancora?
Tutte bellissime, certo. Ma troppo spesso le usiamo per riempirci la bocca e distorcere la realtà, piegandola a fini puramente commerciali.

La biodiversità – ovvero la varietà di forme di vita presenti sul nostro pianeta – dovrebbe essere un pilastro per il mantenimento degli ecosistemi, oltre che una garanzia per un futuro prospero, sia per l’ambiente che per l’umanità. Eppure, scelte economiche e abitudini di consumo, spesso inconsapevoli, stanno mettendo a dura prova proprio questa ricchezza. Colture più redditizie finiscono per sostituire varietà autoctone di qualità superiore, ma meno produttive.

Il consumatore medio pretende fragole a gennaio, arance tutto l’anno, pomodorini freschi sempre disponibili. Va bene la globalizzazione: ormai non usiamo quasi più automobili, telefoni o vestiti prodotti in Italia, e ce ne facciamo una ragione. Ma quando si tratta di cibo... davvero non possiamo fare diversamente?

Questa ossessione per la disponibilità continua ha un prezzo altissimo. Lo paghiamo in termini di biodiversità, di valore del territorio, di gusto e – non ultimo – di salute.

Immaginate un mondo dove esista un solo tipo di vino, tutti guidano la stessa macchina, indossano gli stessi vestiti, hanno gli stessi tagli di capelli.
Un mondo omologato, imposto dal dio denaro in nome del guadagno. Sembra un incubo, vero? Eppure, non è fantasia. Fino a un paio d’anni fa – prima che la crisi climatica entrasse nelle nostre vite con forza – il 75% dell’olio consumato in Italia era venduto nella GDO. E gran parte di quell’olio aveva un denominatore comune: il sentore di “pipì di gatto”.

Sì, avete letto bene. L’assaggio insegna che certi sentori, in cultivar diverse e da diverse zone d’origine, possono derivare solo da problemi nella fase produttiva. Non mi esprimo sulla qualità, ma una cosa è certa: la scelta inconsapevole dei consumatori e gli interessi economici ci hanno abituati – o forse rassegnati – a questo. A mangiare grassi alimentari con un difetto sensoriale marcato e inequivocabile.

E poi arrivano quelli che parlano di “olio democratico”, “olio popolare”, “olio per tutti”.
Sì, magari lo vendono così per interesse commerciale. Ma non credo proprio che i loro figli a casa usino il brand “Cat Pee” (passatemi il termine: “cat urine” mi sembrava troppo aggressivo…).

Probabilmente anche nella prossima stagione vedremo sugli scaffali grandi quantità di questo olio, con la dicitura “Olio Extravergine”. Ma, purtroppo, quella scritta non sempre tutela il consumatore. Solo la conoscenza può portarci verso un vero cambiamento.

La storiella del prezzo troppo alto per l’olio di qualità ormai non regge più. È solo una questione culturale.
Dobbiamo pretendere di più: biodiversità, sentori diversi, caratterizzanti, veri. Dobbiamo riscoprire e difendere le particolarità delle nostre cultivar, la ricchezza di un prodotto versatile e unico come l’olio extravergine di qualità.

È una responsabilità collettiva: tutelare la biodiversità significa garantire un futuro sostenibile e salvare un intero comparto produttivo oggi in grande difficoltà.

E se proprio la pipì di gatto deve essere presente nelle nostre case… che rimanga solo nella lettiera dei nostri amici a quattro zampe.

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