Editoriali 10/11/2023

Un marchio nazionale per il biologico non si può fare

Un marchio nazionale per il biologico non si può fare

Un marchio nazionale che attesti la localizzazione sul territorio nazionale di tutti i processi di fabbricazione di un prodotto non è compatibile con il principio di libera circolazione delle merci nel mercato interno di cui all’articolo 28 del Trattato istitutivo della Comunità europea


Perché sprecare tempo e risorse su progetti irrealizzabili?
La colpa è del parlamento, che ha approvato la legge n. 23/2022 (Disposizioni per la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell’acquacoltura con metodo biologico) che all’articolo 6 ha istituito “il marchio biologico italiano per caratterizzare i prodotti biologici ottenuti da materia prima italiana contraddistinti dall’indicazione «Biologico italiano»”, di proprietà esclusiva del Ministero.

Il marchio ridondante (tre “biologico” e tre “italiano” in tre righe) dovrebbe essere finanziato attraverso il Fondo per lo sviluppo della produzione biologica (art.9) e il suo logo avrebbe dovuto essere individuato mediante un concorso di idee da bandire entro il 4 ottobre 2022.

A ottobre 2023 qualcuno ha visto l’avvio di una gara, di un’indagine esplorativa e conoscitiva, un brief?

No, ed è un bene: il dirigente che firmasse tale atto amministrativo (illegittimo, per come si vedrà) sarebbe responsabile del danno erariale che ne deriva, eventualmente con la coobbligazione del responsabile del procedimento.

Probabilmente il deputato che ne ha proposto l’istituzione traducendo in emendamento al testo originario il pizzino passatogli, ha ricevuto pacche sulle spalle dai colleghi di Commissione cui aveva offerto un giro di aperitivi alla bouvette: “Bravo, un’idea geniale, che in più di trent’anni non ha nemmeno sfiorato le menti di quei poveracci dei legislatori degli altri Paese europei!”.

Maì i legislatori degli altri Paesi non sono meno acuti e brillanti dei nostri: più semplicemente non hanno bigiato troppe lezioni al primo anno di giurisprudenza: a Istituzioni di diritto pubblico hanno potuto apprendere dell’esistenza del diritto dell’Unione europea, che disciplina il mercato interno e vieta misure distorsive della concorrenza e aiuti di Stato in grado di favorirle.

Hanno anche imparato che, quanto alle materie armonizzate da regolamenti europei, gli Stati membri non possono adottare a capocchia disposizioni nazionali, ma solo laddove lo autorizzi il diritto dell’Unione.

Hanno preso appunti anche sul fatto che trattati, regolamenti e direttive europee sono in posizione gerarchicamente sovraordinata rispetto a qualsiasi altra fonte di diritto, eccettuate Costituzione e leggi costituzionali.

Se si può essere indulgenti con parlamentari provenienti da tutt’altra formazione ed esperienza (non si dovrebbe, ma non si dice “perdona loro, non sanno quello che fanno”?), è più faticoso sorvolare sul fatto che gli Uffici studi di Camera e Senato, ma anche l’ufficio legislativo del ministero dell'agricoltura (della sovranità alimentare e delle foreste), che nel diritto europeo dovrebbero sguazzare come squali, non abbiano segnalato prima ai parlamentari, ora al sottosegretario D’Eramo, l’opportunità di andarci piano e di non spendersi su un marchio che collide con il quadro legislativo sovraordinato.

L’azione della Comunità importa la creazione di un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato comune.
L’organizzazione comune di mercato deve escludere qualsiasi discriminazione fra produttori o consumatori della Comunità.
Sono incompatibili con il mercato comune, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati sotto qualsiasi forma che, favorendo
talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza.
I progetti diretti a istituire aiuti sono comunicati alla Commissione e possono essere eseguiti solo dopo la sua decisione che, se ne ritiene l’incompatibilità, è la soppressione.
È sancito dal Trattato che istituisce la Comunità europea, detto “Trattato di Roma” (Supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale n. 317 del 23 dicembre 1957) ed è
integralmente ripetuto nel Trattato sul funzionamento dell'unione Europea (Gazzetta ufficiale dell’Unione europea C326 del 26 ottobre 2012)
E il concetto torna ovunque.

Perchè un marchio biologico italiano non si può fare ed è fuorilegge

Nel parere circostanziato della Commissione europea 24 ottobre 2005 ai sensi della direttiva 98/34/CE sulla procedura d’informazione nel settore delle regolamentazioni
tecniche si rileva che “un marchio nazionale che attesti la localizzazione sul territorio nazionale di tutti i processi di fabbricazione di un prodotto non è compatibile con il principio di libera circolazione delle merci nel mercato interno di cui all’articolo 28 del Trattato istitutivo della Comunità europea”.

Qualche anno dopo, nella sua interrogazione scritta alla Commissione P-0040/09 il finlandese Hannu Takkula (ALDE) dava atto che “il compito della Commissione è di evitare
che la concorrenza del mercato interno sia falsata e tutelare il mercato stesso dal protezionismo. Uno dei principi fondamentali dell’UE è stato quello di cercare di eliminare
le barriere commerciali interne”.

Poi, con un salto logico più mediterraneo che scandinavo, aggiungeva “considerato che in fin dei conti non si può esercitare una completa ortodossia nella gestione dei vantaggi del mercato interno, bisogna agire con moderazione e la necessaria larghezza di vedute” e chiedeva quindi se la Commissione poteva chiudere un occhio sull’uso della bandiera e/o altri simboli nazionali nella commercializzazione di prodotti alimentari.

A stretto giro, la risposta di Mariann Fischer Boel, a nome della Commissione: “Le campagne pubblicitarie sovvenzionate dallo Stato e dirette a rafforzare le preferenze dei consumatori nazionali a favore dei prodotti degli stessi Stati membri sono incompatibili con l'articolo 28 del Trattato CE perché idonee a impedire l'ingresso nel mercato dei prodotti provenienti da altri Stati membri. Ciò significa che, come regola, la Commissione non autorizzerà aiuti di Stato per campagne pubblicitarie il cui messaggio principale sia l'origine del prodotto. Gli aiuti per la realizzazione e l'utilizzo di un'etichetta che menzioni l'origine come messaggio principale sono considerati aiuti alla pubblicità, poiché lo scopo dell'etichetta è indurre gli operatori economici o i consumatori ad acquistare quel prodotto”.
E, proseguiva:
“Le norme sugli aiuti di Stato non si applicano alla pubblicità, comprese le etichette, pagata interamente dagli operatori economici stessi senza denaro pubblico”: gli operatori
sono assolutamente liberi di indicare l'origine dei loro prodotti nelle etichette e nella pubblicità, ma ciò purché sostengano tutti i relativi costi e non gravino sui contribuenti.
Il bilancio dello Stato, quindi, non può destinare nemmeno un centesimo pubblico a marchi nazionali.
E, ovviamente, nessun centesimo potrà provenire da Bruxelles per cofinanziare iniziative promozionali tese a favorire l’autarchia commerciale sia nel mercato interno che nei paesi terzi.

Il regolamento (UE) n. 1144/2014 è sufficientemente chiaro:
“Le azioni di informazione e di promozione non sono orientate in funzione dell’origine. Tali azioni non sono destinate a incentivare il consumo di un determinato prodotto soltanto in base alla sua origine specifica”.
Potrà esservi fatto riferimento, ma “l’indicazione dell’origine deve sempre essere secondaria rispetto al principale messaggio dell’Unione della campagna”.

L’utilizzo dell’ipotetico «Biologico italiano», in sostanza, scaricherebbe tutti i costi sugli operatori, che non potrebbero accedere a contributi nazionali (aiuto di Stato, in quanto
risorse che favoriscono talune imprese falsando o minacciando di falsare la concorrenza) né unionali (per esplicita esclusione nel regolamento che li disciplina).
Va poi ricordato che già dal 1 luglio 2010 nelle etichette dei prodotti biologici è obbligatorio inserire non solo l’apposito logo europeo (che, a differenza dell’ipotetico “marchio biologico italiano per caratterizzare i prodotti biologici ottenuti da materia prima italiana”, è un attestato ufficiale a norma del regolamento (UE) n. 625/2017), ma anche la dicitura “Agricoltura Italia” o addirittura “Agricoltura Sicilia” (quando almeno il 98% degli ingredienti di origine agricola sia colà coltivato o allevato) o, a seconda, “Agricoltura UE”, “Agricoltura non UE”, “Agricoltura UE/non UE”.
Il vanto dell’italianità degli ingredienti è quindi già uno strumento a disposizione degli operatori che lo ritengano utile.

Rema contro anche l’art.32 del regolamento (UE) n.848/2018: l’ipotetico “marchio biologico italiano per caratterizzare i prodotti biologici ottenuti da materia prima italiana”
non potrebbe aver maggior risalto rispetto alla denominazione di vendita.
Se la denominazione è a corpo 12, «Biologico italiano» dovrebbe impegnare non più di 4,23 mm, se è a corpo 18 (ma trovatemi un’etichetta con la denominazione a corpo 18) schizza a 6,35 mm. Qualcuno ha un righello sulla scrivania?

Per chiudere, si può ricordare che nel 2009 il ministero finanziò l’Inea (l’Istituto Nazionale di Economia Agraria, ora incorporato nel CRA - Consiglio per la ricerca e l’analisi
dell’economia agraria) affinché realizzasse lo “Studio di fattibilità per l’introduzione di un logo nazionale da utilizzare nell’etichettatura, presentazione e pubblicità di prodotti
biologici”).
Nello studio si legge:
“Di per sé, un marchio collettivo che garantisca l’origine geografica di un prodotto, se privo di disciplinari altrimenti caratterizzati si limita – appunto - a garantire l’origine geografica, nulla potendo garantire sulla qualità organolettica né sulle altre performance attese dal consumatore.
In altre parole, il prodotto marchiato proverrà sicuramente da un’azienda operante nel territorio identificato dai regolamenti, ma questa potrebbe essere l’unica sua caratteristica significativa, con potenziali riverberi negativi sull’intera produzione a marchio.
Il consumatore si attende, infatti, caratteristiche omogenee dei prodotti contrassegnati dal medesimo marchio, tra i quali si genera un forte legame sinergico di reputazione; se arriva sul mercato un prodotto insoddisfacente, tutti quelli con lo stesso marchio ne trarranno un danno d’immagine, così come, simmetricamente, la buona fama di un prodotto si trasmette anche ai meno meritevoli (Dini et al, 1990)”.
Non fosse chiaro a sufficienza, nelle conclusioni dello studio si indica:
Ne consegue che non appare praticabile la via di un intervento pubblico per un marchio nazionale il cui scopo sia la promozione e l’attribuzione di un vantaggio competitivo alle imprese nazionali; un marchio basato esclusivamente sull’origine nazionale delle imprese è ammissibile (e dopo accurata calibrazione della sua regolamentazione) dalla normativa comunitaria esclusivamente se alla sua gestione e promozione provvedono direttamente le imprese, con l’esclusione di ogni contributo economico pubblico”.
Commissionare uno studio al massimo istituto nazionale di ricerca socio-economico in campo agricolo-industriale per poi procedere in modo diametralmente opposto a quanto
raccomandato sembra inconcepibile solo a me?

p.s. sì, Francia (marque AB dal 1996) e Germania (Bio-Siegel dal 2001) hanno istituito propri marchi, ma servivano per le campagne di promozione che lo Stato finanziava prima dell’introduzione del logo europeo. Erano marchi di conformità, non di origine, tant’è che erano e sono concessi gratuitamente e a semplice richiesta a qualsiasi impresa UE e non UE in possesso di certificazione, ben si guardavano e si guardano dal vincolare la concessione all’autarchia produttiva.

di Roberto Pinton

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