Editoriali
E' un errore credere che basti il solito marketing per l'olio extra vergine di oliva di eccellenza

I mercati si muovono in due mondi alternativi: quello delle “commodities”, nelle quali tutti i prodotti si sovrappongono, si scontrano all’ultima goccia, prima di morire e il mondo delle “specialità”, nelle quali ogni prodotto ha una sua funzione e occupa un suo territorio
26 febbraio 2021 | Gigi Mozzi
Mi sono sempre trovato d’accordo con le posizioni di Giampaolo Sodano, nel grande servizio che ha offerto al mondo dell’extravergine “artigianale”.
Fino alla fine del 2020, quando ha scritto un articolo magistrale sul futuro prossimo venturo del comparto: i frantoiani sono chiamati a dare una nuova identità all'olio extra vergine d'oliva italiano.
Ci sono alcuni punti, che non riducono l’impatto globale delle proposte, ma che mi sembrano meritevoli di un po’ di sana discussione.
L’idea è quella di iniziare un dialogo, un confronto aperto a tutte le persone di buona volontà, un appello ai contributi che nascono da esperienze e da voci differenti e, per questo, sono più importanti e più ricchi dei monologhi che siamo abituati ad ascoltare e a dimenticare.
L’articolo di Sodano, potrà piacere o no, essere condiviso, in tutto o in parte, ma non dovrebbe essere sottovalutato come una semplice notizia di cronaca, archiviato negli scatoloni dei ricordi e sepolto dalle necessità del quotidiano.
Dentro ci ho trovato i semi di una trasformazione e i germi di una rivoluzione, che probabilmente ci toccherà in maniera marginale, ma che segnerà il futuro prossimo venturo di questo mercato.
Parto da alcuni punti chiave, che racconterei a rate, se come mi auguro, potranno riuscire a sollecitare altri spunti e altre riflessioni, a rivelare altre prospettive, a dichiarare nuove posizioni per arrivare ad una sintesi condivisa.
Dice Sodano “è arrivato il tempo di cambiare politica …….. facendo più politica”.
Non credo che sia questa la strada: è necessaria una politica completamente diversa, come dire, dalla politica del dire alla politica del fare, dalla politica dell’assistenza alla politica del progetto, dalla politica del prodotto alla politica del consumatore.
Non più politica, ma una politica profondamente diversa: non da caldo a più caldo, ma da caldo a freddo, da dire a fare.
La politica del dire è allegra e leggera, ci porta nel magico mondo a colori con l’infinita gamma delle intenzioni, con i ventagli delle alternative, con i profumi delle sfumature: la politica del dire ci offre gli scenari scintillanti del futuro, ricolora i fatti del passato, gira la ruota del tempo e nasconde le fatiche del presente.
La politica del dire è sempre vincente, ha sempre ragione: la politica del dire onora chi parla, non coloro che ascoltano.
La politica del fare è in bianco e nero, concreta e severa, un po' triste, senza mezze misure: sì/no, 0/1 (piove o non piove, sono incinta o non sono incinta).
La politica del fare è adesso, non ieri e mai domani: la politica del fare è decidere, non immaginare, non descrivere, non indicare, non suggerire.
La politica del fare non torna mai indietro, come il tempo: la politica del fare è piena di rischi, perché chi rompe, paga.
La politica del fare implica tutti: per questo deve essere condivisa.
Confesso che anch’io ho praticato la politica del dire.
Forte della mia esperienza di consulente, ho raccontato alcune favole sulle pagine ospitali di Teatro Naturale e sono arrivato a raccontare, qualche anno fa, a Sodano e a Gonnelli un progetto per costruire un “sistema distribuito” (attraverso la formula delle Reti d’Impresa) capace di valorizzare, da una parte, la produzione del singolo frantoiano e dall’altra, di creare un forte anello di tutela (di posizionamento, di immagine e di organizzazione commerciale) per tutti coloro che producono l’olio extravergine artigianale.
Non si tratta di cambiare la nostra produzione, che è eccellente, si tratta di proteggerla.
Mi sembrava facile e persuasivo, ma non sono riuscito a convincere nessuno: dicevo che invece di pensare a copiare il modello spagnolo, a progettare grandi frantoi e colture intensive, per trovarci così in competizione diretta e con poche speranze di sopravvivere, si trattava di capire come costruire il “nostro mercato”, con i “nostri prodotti”.
I mercati si muovono in due mondi alternativi: quello delle “commodities”, nelle quali tutti i prodotti si sovrappongono, si scontrano all’ultima goccia, prima di morire e il mondo delle “specialità”, nelle quali ogni prodotto ha una sua funzione e occupa un suo territorio, essendo la crescita di uno, non a discapito degli altri, ma ad arricchire e rafforzare l’insieme.
Tra la commodity e le specialità c’è una sola barriera: la categoria.
A dire il vero ci avevo anche provato, a fare: ero riuscito a recuperare, per l’allora Corporazione la masterbrand “mastri oleari”, con la quale mi ero pagato l’ingresso in Esselunga e avevo realizzato le attività commerciali per sostenere la nascita di una “categoria” che è rimasta impigliata nelle paure dei miei compagni di viaggio, i quali avevano preferito l’uovo subito alla gallina di domani.
Quando parlo del “nostro mercato” devo capire se parliamo dell’olio di oliva italiano “prodotto”, e sono circa 300.000 tons all’anno, o se parliamo dell’olio di oliva italiano “venduto”, e sono circa 1.000.000 di tons (vale a dire 700.000 tons di olio non prodotto, di cui 300.000 tons vendute in Italia e 400.000 tons all’estero).
Per semplificare, direi che 700.000 tons sono “commodities” perché usano l’immagine riflessa del Bel Paese, ma vivono solo di bassa qualità (con prezzi bassi o con prezzi speculati): di queste, 300.000 tons combattono, a costi impari, contro la produzione nazionale con il grande merito di infettarne l’immagine e le altre 400.000 tons fanno parte dell’italian sounding di esportazione (preferisco chiamarlo italian lifting) che è molto peggio dell’italian sounding ufficiale, di cui tutti lamentano gli ingenti danni.
Sarebbe un vero peccato non rispettare le giuste ragioni produttive e commerciali che provengono dalle 700.000 tons: senza offesa, ma anche senza compromessi, basterebbe che si chiamassero con il loro vero nome e che fosse chiara la differenza.
La differenza è “come”: come sono coltivate, come sono raccolte e frante.
Per quella parte delle 300.000 tons prodotte in Italia, che potrebbero essere nella categoria delle “specialità”, non si tratta di cambiarne i caratteri e la natura, si tratta di implementare i punti di forza (il prodotto) e trasformare i punti di debolezza in obiettivi di forza (le attività commerciali).
La protezione delle “specialità” non arriva da quattro chiacchiere a tempo perso, ma da una rigorosa attenzione alle condizioni del mercato (non solo dei campi), alle attese dei consumatori (non solo alle speranze dei frantoiani) alle richieste dei canali e dei sistemi distributivi (non solo alla dialettica dei prezzi), alla capacità di definire un posizionamento unico e differenziale (non certo con le mille pseudo-categorie e le mille auto-certificazioni).
La storia di tutti i mercati ci offre tanti esempi, interessanti da raccontare, ma servirebbero solo per la politica del dire.
La politica del fare, per l’olio extravergine di oliva è, appunto, da fare: nel senso che non ci sono ricette da copiare ma progetti da costruire, non ci sono assetti organizzativi da imitare ma da comporre, non ci sono obiettivi da ricalcare ma traguardi da condividere, non ci sono operazioni da scimmiottare ma programmi da realizzare.
Il problema dei frantoiani è che sono troppo bravi e riescono ad occuparsi di agronomia, di tecniche produttive, di processi qualitativi, di analisi dei consumi, di immagine e posizionamento, di confezioni, di strategia commerciale, di canali distributivi: purtroppo, tutte queste operazioni sono effettuate in capo a singole entità produttive, che rispondono bene alle regole dei prodotti, ma non che non corrispondono alle regole dei mercati (dove agiscono forze indipendenti, che operano con obiettivi diversi da quelli della produzione).
L’errore è credere che basti il marketing per il prodotto, invece ci vuole il marketing per la categoria.
L’errore è credere che “cambiare”, sia il lessico vincente dei Gattopardi, per i quali ogni cambiamento consiste nel cambiare tutto perchè non cambi nulla: ancora più grave è credere che “innovare” sia solo un modo diverso di competere.
L’errore è credere che basti il “marketing del dire” per cambiare le cose: invece ci vuole il “marketing del fare”.
Il marketing del fare (come la politica del fare) implica due regole facili: saper fare le cose giuste e saperle fare bene.
E ne richiede una difficile, farle assieme.
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27 febbraio 2021 ore 08:54sono una recluta dell'olio. lo produco soltanto da venti anni. l'esperienza mi suggerisce di dire che sono daccordo con gigi mozzi, bisogna saper fare le cose giuste e saperle fare bene. si riesce anche a farle assieme, ma non viene bene. purtroppo! tuttavia non bisogna darsi per vinti. l'olio artigianale esiste ed esisterà sempre finche ci sarà un mastro oleario in grado di farlo. il problema è se ci sarà la materia prima, le olive.
Mauro Galardi
27 febbraio 2021 ore 08:42Una bella analisi sulle problematiche del mercato dell'olio. Solo con attente analisi di mercato ed una conseguente focalizzazione e valutazione delle azioni da intraprendere riusciremo a superare l'attuale e grave situazione di crisi .
Alessandro Vujovic
27 febbraio 2021 ore 12:21In quelle 700.000 t. c'è la quota che "infetta" l'immagine dell'EVO nazionale di qualità e la quota esportata alla quale è stato fatto il "lifting", ci sono dietro ingenti interessi anche di lobbies protette dalla classe politica e non c'è la volontà di un cambiamento, perché, pur nelle continue lamentele, la situazione fa comodo a troppi, anche se non a tutti. La normativa attuale non è un aiuto, anzi.