Editoriali

L'ISLAM E LE PAROLE DEL PAPA

23 settembre 2006 | Sante Ambrosi

Nessuno si aspettava che un discorso del Papa rivolto a tutto il corpo accademico dell’Università di Ratisbona, in occasione del suo recente viaggio in Germania, potesse suscitare le reazioni violente in tutto il mondo Islamico, quali noi tutti abbiamo potuto constatare in questi giorni.

I fedeli della religione mussulmana si sono sentiti offesi non tanto dal discorso che il Pontefice ha fatto presso l’università di Regensburg, ma dalla citazione che ha fatto per un tema che riguardava il rapporto tra fede e ragione.
La citazione era presa da un dialogo che l’Imperatore di Costantinopoli Manuele II, nel 1391 ebbe con un persiano di religione islamica e che trascrisse in un’operetta che venne ristampata recentemente in Francia.

In questa citazione l’imperatore sostiene che la religione islamica si pone contro la ragione e, quindi, è contro lo stesso volere di Dio , perché la ragione è una facoltà donata all’uomo per conoscere la verità .Dunque, secondo Manuele II, la religione islamica non può essere una religione rivelata da Dio. Questo, in sintesi, il contenuto della citazione fatta dal Papa, dalla quale partiva per un lungo discorso che aveva come tema centrale non certo i rapporti con la religione islamica, ma i rapporti tra fede e ragione, tema particolarmente vivo all’interno della cultura occidentale.

Come ha più volte in pochi giorni ricordato lo stesso Pontefice, non c’era in quella citazione nessuna volontà di far propri i sentimenti e le affermazioni dell’imperatore di Costantinopoli e neppure la volontà di introdursi in una discussione sui rapporti tra le religioni ed esprimere, sia pure indirettamente, un giudizio sulla religione del mondo islamico.

Purtroppo ormai il mondo islamico aveva preso quella citazione come un giudizio sulla propria religione e, senza leggerla nel contesto di tutto il discorso, si è indignato e ha cominciato con le proteste e la minacce di cui tutti i giornali hanno dato ampio rilievo.

Di fronte ad una reazione spropositata del mondo islamico, l’occidente si è sentito minacciato e si sono susseguiti interventi di politici e di intellettuali che hanno riproposto i temi già sviluppati dopo la distruzione delle torri gemelle e delle guerre contro il terrorismo di matrice islamica promosse dal Presidente degli Stati Uniti: il pericolo reale per l’occidente, l’impenetrabilità del mondo islamico, la necessità di ritrovare una identità forte da parte dell’occidente, che sia in grado di contrastare l’invasione del mondo islamico con la sua cultura che fa a pugni con la nostra, e via discorrendo.

Che cosa dire di nuovo e di diverso rispetto a quello che è già stato detto?
Tutto è stato detto sulla gravità della situazione, esplosa in un modo tale che appare non solo immotivata la reazione piena di rabbia del mondo islamico, ma anche del tutto strumentale.
I pretesti se non ci sono si possono facilmente inventare.
Però, detto questo ed accettato senza riserve, si possono, o almeno io mi sento di fare alcune precisazioni, per tentare, non tanto di trovare delle vie di uscita, ma per individuare dei percorsi che possano portare a dei rapporti diversi tra le religioni e in specie tra il mondo occidentale e il mondo islamico.

Prima di tutto bisogna smettere di parlare di contrapposizione ideologiche. Anche se queste ci sono, e ci sono, non è con le contrapposizioni che può procedere un dialogo costruttivo. Teniamo conto che tutto l’occidente non nasce da un’unica matrice ideologica, ma che si è costruito fondendo diverse culture che lungo i secoli si sono scontrate e incontrate attraverso mille difficoltà e nelle quali la Chiesa ha avuto una grande funzione di mediazione creativa.
La contrapposizione può solo giustificare guerre di religione di cui non abbiamo assolutamente bisogno.
E poi non dobbiamo lasciarci influenzare dalle grida allarmate di tanti politici che cavalcano questa situazione di tensione per sbandierare tesi di identità cristiana e di difesa del cristianesimo, ma che hanno poco di evangelico. Sono discorsi di tanti politici che alla stregua di tanti cattive guide della religione islamica usano in modo strumentale la situazione attuale per fini politici di poco respiro e miopi.

Interessante, invece, è capire che il dialogo è difficile e che ancora non ha trovato strade di un confronto costruttivo. E per trovarlo penso che si debba tornare a quelle affermazioni di S. Paolo che affermava: mi sono fatto ebreo con gli ebrei, greco con i greci, gentile con i gentili per annunciare a tutti la salvezza di Cristo.
Parafrasando e attualizzando l’affermazione di Paolo possiamo dire che per cominciare un dialogo vero dobbiamo anche noi diventare in qualche modo arabi.
E perché questa affermazione non appaia troppo ardita voglio ricordare quanto la Chiesa già da tempo si è posta di fronte al problema della impenetrabilità del mondo islamico in modo originale, in tempi molto lontani.

In un articolo del Corriere della Sera del 20 settembre di quest’anno, si fa riferimento a un tentativo molto interessante avviato nel 1938 da parte della Chiesa per tentare un nuovo modo di evangelizzazione, soprattutto nel mondo islamico, visto che dopo decenni di impegno missionario in quel mondo non si aveva raccolto nulla. E proprio in questo articolo si ricordavano due esempi particolarmente interessanti.

Viene ricordato l’esempio di Monsignor Roncalli, nunzio ad Istanbul, che usava la lingua locale per le preghiere non liturgiche. Il futuro Papa Giovanni XXIII aveva capito che prima di annunciare il Vangelo bisognava entrare in quel mondo, incarnarsi in esso come ha fatto Cristo che divenne in tutto simile a noi. Si riportano, poi, gli appunti di padre Albert Perbal, missionario, chiamato a discutere sul tema di una nuova missionarietà, iniziativa voluta e promossa dal Vaticano, sempre nel 1938.
Sono appunti interessanti. Ne scelgo solo uno, che mi sembra estremamente significativo: “Far sprigionare il carattere universale del cristianesimo e separarlo nettamente da tutto ciò che specificatamente occidentale, europeo, nazionalista e legato allo spirito coloniale”.
Da questi tentativi bisogna ripartire, anche se è una strada difficile e meno rassicurante.

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