Editoriali
I concorsi oleari ormai sono un'arma spuntata
A chi giovano ormai i concorsi oleari? Sicuramente a quelle organizzazioni che hanno visto crescere il fatturato in maniera molto importante trasformando la loro attività in un vero business. Nulla di male ma occorre sempre ricordare la loro originaria funzione: un megafono, ricorda Duccio Morozzo della Rocca
29 giugno 2018 | Duccio Morozzo della Rocca
Il re è nudo. Non credo di essere l’unico a vedere che qualcosa più non va nei concorsi dedicati all’olio extra vergine di oliva. Quello che è stato per molti anni “IL” mezzo per dare coraggio e identità al mondo dei produttori di alta qualità oggi sembra aver scelto di indossare una veste molto più ambiziosa che, come nella favola il re nudo, lascia intravedere imbarazzanti trasparenze.
A me sembra che oggi i concorsi non siano più il mezzo per dare visibilità e identità ai produttori ma, viceversa, che i produttori siano il mezzo per la gran parte dei concorsi per guadagnare, non solo, visibilità. I concorsi dovrebbero esistere per fornire un servizio, regolarmente pagato, ai produttori e non –almeno non solo- per autocelebrarsi e fare cassa. La realtà è che questi concorsi dovrebbero essere per i partecipanti un investimento e non una spesa. Qualcosa non va, non vi pare?
Prolificano e si moltiplicano, doppioni di doppioni, tutti con le stesse grandi ambizioni di respiro internazionale. E più aumentano e più mi domando se abbiano ancora il senso e soprattutto il valore che hanno rivestito in passato. Abbiamo un settore olivicolo-oleario maturo dopo la rapida evoluzione degli ultimi 20 anni. Una splendida evoluzione che non viene seguita e supportata ma piuttosto cavalcata dai concorsi.
Il vero grande cambiamento di questi ultimi anni è quello del forte aumento dei costi da sostenere per i partecipanti spinti ad aderire a più concorsi possibili con la speranza, per i più fortunati, di una stretta di mano, qualche soddisfazione personale e un po’ di fugace visibilità tra colleghi.
Molto raramente partecipare o anche vincere un premio si traduce per un produttore in un guadagno tangibile o in visibilità spendibile a livello commerciale. Si arriva addirittura in casi estremi a dover comprare il premio vinto, per il quale viene richiesto un costo aggiuntivo a parte. Tante spese e pochi ritorni. Sembrerebbe un pessimo investimento.
I saggi Romani, quelli “Antichi”, si sarebbero chiesti: “cui prodes”? A chi giova veramente?
Sicuramente a quelle organizzazioni dei concorsi che hanno visto crescere il fatturato in maniera molto importante trasformando la loro attività in un vero business.
Probabilmente anche a qualche azienda partecipante, a patto che sia molto ben strutturata, con un buon reparto di marketing alle spalle e una possibilità di piazzare volumi scalabili di prodotto. Diciamo una struttura più puramente commerciale che produttiva.
Mentre mi sembra che giovi sempre meno ai produttori che si sono dedicati con immense fatiche da sempre alla ricerca dell’olio perfetto e che oggi rischiano di essere sempre meno rappresentati e tutelati o addirittura messi da parte.
D’altronde, chi oggi vuole provare ad avere una visibilità internazionale è spinto da questo “sistema concorsi” a partecipare al maggior numero possibile di essi per provare ad entrare nel world ranking. Mi chiedo tuttavia chi, economicamente, potrebbe partecipare a così tanti concorsi per poter accedere alle classifiche di posizionamento mondiale. Si dovrebbero preventivare dai 5 ai 12 mila euro l’anno. Appare chiaro che solo i grandi gruppi hanno un tale capitale da investire. Ma soprattutto, bisogna tenere presente che queste spese sono solo l’inizio perché arrivare primo non significa vendere il proprio olio. Da quel punto devono partire altri investimenti di promozione ancora più costosi per beneficiare di un ritorno. Chi nel mondo produttivo di alta qualità se lo può permettere? A quale categoria di produttore si rivolgono allora i concorsi di oggi?
Si potrebbe dire che questo non è un problema dei concorsi, ma non dimentichiamo che il servizio offerto è quello di premiare e promuovere la qualità degli oli meritevoli che dovrebbe essere propriamente comunicata affinché si creino occasioni per sbocchi commerciali utili ai produttori.
Il concorso deve essere un garante di connessione tra produzione e acquisti. Un megafono.
Dunque se è infatti vero che un concorso non nasce con la vocazione di vendere l’olio dei partecipanti, è altrettanto vero che dovrebbe destinare maggiori risorse non alla sua autocelebrazione all’interno del mondo dei produttori bensì ad una ben calibrata promozione esterna che porterebbe con sé alle luci della ribalta i produttori meritevoli: maggiore è la risonanza di un concorso a livello mediatico, la sua autorevolezza tra il pubblico e gli operatori economici, la sua capacità di comunicare l’eccellenza e maggiore sarà la visibilità che si riflette sui partecipanti. Questo deve essere a mio avviso il principale ritorno dell’investimento per il produttore dal servizio che offre un concorso e questo fa si che l’attestato di qualità ricevuto, oltre ad arredare la parete, possa anche valere qualcosa nell’economia reale aziendale.
Molti concorsi non hanno invece risonanza neanche in ambito locale ma si vantano di essere riconosciuti a livello internazionale. La domanda che rivolgo ai produttori è dunque la seguente: vale la pena investire denaro e risorse in un concorso che non vi porterà nessun vantaggio economico utile e tangibile?
Credo sia arrivato il momento di farsi delle domande e di chiedere ai concorsi di investire una parte delle entrate per favorire il vostro successo. D’altronde un concorso senza i produttori non è altro che una bella ed elegante etichetta che veste una bottiglia vuota.
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stefano petrucci
29 giugno 2018 ore 20:10I concorsi servono solo a chi li organizza a partire dal più famoso in Italia ed organizzato dalle Camere di commercio. Ancora oggi il prezzo dell’olio è legato essenzialmente all’origine.