Editoriali

UNA PIOGGIA DI SOLDI

29 ottobre 2005 | Ernesto Vania

L’agricoltore non è imprenditore.
Come accaduto per gli spazzini, divenuti in un primo tempo netturbini e quindi operatori ecologici, con l’evidente scopo di inorgoglirli e lusingarli, così i contadini sono stati promossi imprenditori agricoli.
Un processo semantico, un cambiamento che non ha coinciso con alcun reale mutamento sostanziale.
Piogge di soldi e fiumi di denaro sono stati spesi, ma lo spirito contadino è rimasto immutato.
Una fortuna e una sventura al tempo stesso.
Il mondo rurale è ancor oggi ancorato a mentalità e concezioni ben poco economiche. Termini come budget sono estranei al settore primario. Parte del fascino dell’agricoltura sta anche in questo modo antico, oserei dire arcaico, di concepire l’economia, il tempo e il guadagno.
Il mondo rurale però si è evoluto. Non esiste più, o quasi più, la fattoria, intesa come entità autosufficiente capace di mantenere una famiglia attraverso i frutti, spontanei o meno, della terra. Fino a qualche decennio fa si viveva di ciò che si produceva, ora viene tutto monetizzato, tramutato in valuta, con cui comprare beni e servizi.
L’azienda agricola è quindi un ibrido, è divenuta impresa, capace di generare flussi di denaro, senza che si sia mai radicata la natura imprenditoriale, fatta di rischio, di investimenti, di calcolo della redditività, di vendita, di promozione e di comunicazione.
Il settore primario è anomalo.
Viene fortemente assistito, sicuramente più di altri comparti. Aiuti alla produzione, sussidi, contributi, finanziamenti, seppur ridotti rispetto a qualche anno fa, continuano a entrare nelle tasche dei contadini. Sono milioni, anzi miliardi, di euro ma il mondo rurale appare sempre sull’orlo del precipizio, al limite del burrone. Gli agricoltori soffrono, si lamentano, protestano. Spesso vengono accontentati, seppure mai nella misura desiderata. Il bastone e la carota. Il contributo dell’agricoltura al prodotto interno lordo è assai modesto, ma se vi aggiungiamo tutto l’indotto e i risvolti paesaggistici, naturalistici e turistici, il mondo rurale muove l’economia di più di un Paese europeo, Italia compresa.
L’agricoltura è quindi una seccatura, un fastidio necessario.
Per uscire da questa imbarazzante empasse occorrerebbe che gli agricoltori di tramutassero in veri imprenditori. Rappresenterebbe un passo epocale, compiuto già dal settore vitivinicolo qualche anno fa. Sebbene si sia trattato di una rivoluzione incompiuta, è significativo che si parli di industria del vino.
Gli imprenditori vitivinicoli anno compreso un concetto fondamentale: per essere ben remunerati occorre creare l’esigenza al consumatore. Devono bramare il tuo prodotto, desiderare di acquistarlo. L’esempio probabilmente più attuale e lapalissiano è quello del telefono cellulare. Rappresenta uno strumento comodo, pratico, utile. E’ necessario cambiarlo tutti gli anni? E’ indispensabile spendere cinquanta euro a testa al mese tra prodotti e servizi? Assolutamente no. E’ possibile farne a meno? Assolutamente no. Non è più solo moda, non è più uno status symbol, come fino a pochi anni fa. E’ divenuto un prodotto di massa, un oggetto che fa parte della nostra vita quotidiana e per il quale siamo disposti a spendere. Le aziende di telecomunicazioni continuano, con costanza e a una cadenza assillante, a fornire nuovi servizi, prodotti sempre più evoluti e ricchi di funzioni. Ricerca e innovazione. Marketing, pubblicità e comunicazione fanno il resto. Vengono così generati fatturati altissimi e ottimi profitti.
Il settore agricolo non fa ricerca.
Il mondo rurale non innova e non si rinnova.
Il comparto primario considera marketing, pubblicità e comunicazione spese inutili.
L’agricoltore non è imprenditore.