Cultura 04/10/2003

IL LINGUAGGIO DEL FUMETTO: L’OPPRESSIONE E LA DENUNCIA

Si tratta di un’interazione dell’immagine con la parola scritta. Ha radici antiche, ma è solo nel ‘900 che trova la massima espressione


Prima di soffermarci su qualunque riflessione in merito al valore che si voglia dare al fumetto bisogna capire cosa effettivamente esso sia.
Tecnicamente è una forma di comunicazione basata sull’interazione dell’immagine con la parola scritta. Appartiene quindi sia all’ambito letterario che a quello delle arti figurative.
Dal punto di vista storico la genesi del fumetto potrebbe risalire molto indietro; infatti in molti cicli di pitture medievali le singole scene erano corredate da una didascalia esplicativa, o addirittura le parole pronunciate venivano fatte dipartire dalla bocca di colui che parlava come per esempio nell’Annunciazione di Simone Martini. È giusto però considerare il fumetto una espressione culturale del Novecento, legata quindi, come è ovvio, a tendenze artistiche di questo secolo. I due legami più evidenti sono quello con il Futurismo e in particolare con Giacomo Balla, che ha “insegnato” ai fumettisti a disegnare il movimento come una scia visibile, e con la Pop Art di Warhol e Lichtenstein.

Warhol e la Pop Art americana
Andy Warhol (1930-1987) è il rappresentante più tipico della pop art americana; intorno al 1960 comincia a realizzare i primi dipinti che prendono spunto dal cinema, dai fumetti (compaiono infatti Braccio di Ferro, Superman...), dalla pubblicità, senza alcuna scelta estetica, ma come puro istante di registrazione delle immagini più note e simboliche. In queste sue opere non vi è quindi alcuna scelta estetica, ma neppure alcuna intenzione polemica nei confronti della società di massa: unicamente esse ci documentano quale è divenuto l’universo visivo in cui si muove quella che noi definiamo la “società dell’immagine” odierna.
L’opera intera di Warhol appare quasi un catalogo delle immagini-simbolo della cultura di massa americana: intende infatti creare un arte concettuale e popolare, in una quotidianità governata dall'immagine e dalla comunicazione; cioè imitando nell’arte il linguaggio della cultura di massa.

La contaminazione tra pittura e fumetti
Ancor più di Warhol, Roy Lichtenstein (1923-97) è un artista la cui immagine si lega indissolubilmente ai fumetti. Tra gli artisti della Pop Art è quello che più riesce a creare una cifra stilistica inconfondibile, restandovi fedele fino all’ultima produzione.
Egli, sempre realizzando immagini come fossero fumetti, rivisita tutti gli artisti principali e gli stili sorti nel corso del Novecento, dal cubismo al futurismo, dall’espressionismo all’action painting. La contaminazione tra pittura e fumetti crea un dialogo originale che rimane come una delle espressioni più originali della cultura americana del secondo dopoguerra.
Nel caso di Lichtenstein il costante ricorso al linguaggio dei fumetti non ha probabilmente una valenza ironica o polemica, ma sembra nascere da una precisa convinzione estetica. Da un punto di vista formale i suoi quadri non fanno una grinza, proponendosi come opere compiute e di grande tenuta espressiva. In questo caso, l’astrazione di un singolo momento da una storia che non conosceremo mai, non ci disturba più di tanto, e anzi amplifica il fascino di un’immagine che risulta piacevole solo per l’espressività della forma.
Molto forte anche il rapporto con il cinema di cui il fumetto riprende la tecnica del montaggio e i ritmi narrativi; cioè il modo di collegare scene diverse per analogia, con una battuta comune fuori campo, o per mezzo di un “flashback” basato su un’analogia di immagine.

Attraverso il fumetto si indaga la società
Analizzato quindi il valore artistico del fumetto in genere e del suo rapporto con l’arte “ufficiale” bisogna ora analizzarlo in quanto espressione “culturale”.
“Cultura” è la serie di manifestazioni e testimonianze di un determinato gruppo in un luogo e in un tempo, basato su un sistema valoriale e sociale; e il fumetto è segno di valori, dei comportamenti sociali e della struttura comunicativa della società industriale del XX secolo. Quindi studiando il fumetto si può indagare dal punto di vista antropologico la società esattamente come leggendo Shakespeare si può avere uno spaccato della “cultura” e della “mentalità popolare” dell’Inghilterra seicentesca.
Il fumetto, quindi, può avere vari scopi: quello ludico, quello di veicolare messaggi preesistenti (per esempio Dylan Dog è stato per anni il protagonista delle pubblicità-progresso contro l’abbandono estivo degli animali); e di dare una testimonianza della società (di essere una espressione culturale). Infatti esso da una parte rappresenta realisticamente e problematicamente la nostra società, dall’altra cerca di rappresentare un’ideale risoluzione ai conflitti interni ad essa. La denuncia può avvenire in chiave amara, pessimistica, cinica, ironica, scanzonata, con intenti etici o moralistici, comunque sempre molto legata al vissuto quotidiano.
Emblema di questo modo di concepire il fumetto è Maus .

La tragicità dell’Olocausto
Maus è il libro-fumetto ideato e realizzato da Art Spiegelman nel 1973 ed è il primo fumetto ad aver vinto il prestigioso premio Pulitzer. Racconta la vicenda, realmente accaduta, di un sopravvissuto all’Olocausto, Vladek Spiegelman, padre di Art, e contemporaneamente il difficile rapporto tra i due in una Rego Park (New York) di fine anni ’80, un rapporto complesso e tormentato, segnato dal suicidio della madre di Art, e dalle mille, piccole manie, al limite del folle o del ridicolo, di Vladek, causategli dalla guerra, ma che il giovane figlio nato in un epoca di libertà e agiatezza non può capire. Ma è sicuramente la giovinezza di Vladek che occupa il corpo centrale del fumetto: la prima parte infatti (“Mio Padre Sanguina Storia”) narra la vicenda di Vladek fino alla deportazione ad Auschwitz (Mauschwitz nel testo), la seconda (“E Qui Cominciarono i Miei Guai”), narra la sua vita nel campo di sterminio e la lotta quotidiana per la sua sopravvivenza, lotta fatta di meschini trucchi e ingegnose trovate, basata sull’unica, crudele regola mors tua, vita mea, il tutto magistralmente intramezzato da veloci ritorni alla realtà di Rego Park, caratterizzati dalle continue liti tra Art e Vladek. Geniale, oltre che ottimamente riuscita è l’idea di narrare la tragicità dell’Olocausto con piccole immagini di animali. Ed è proprio questa metafora, che sta alla base dell’opera, che riesce cosi bene a coinvolgere: l’idea di Art Spiegelman è infatti tanto semplice quanto diretta: dare ad ogni popolo un volto d’animale; ed è grazie a questo espediente che gli ebrei si trasformano in indifesi topolini, i tedeschi in spietati gatti, i polacchi in crudeli maiali, gli americani in gentili cagnoloni, visto anche che per le menti illuminate del Reich era sempre necessario fare dei paragoni zoologici e visto che Hitler amava definire gli ebrei Ratti. Oltre a ciò ci sono le maschere, che anche Vladek sarà costretto ad indossare, nelle sue innumerevoli peripezie, per poter scampare alla morte. Maus racconta. quindi, in maniera cruda e diretta l’odio dei tedeschi per gli Ebrei e i molteplici trucchi inventati dagli Ebrei per sfuggire alla cattura: la vita dei lager, dove perdere una scarpa può costare la vita e dove mezza pagnotta di pane rappresenta un capitale. Maus racconta attraverso una semplice grande metafora, il triste declino di un popolo, l’insensatezza di una strage pianificata e una storia vera. E d’ora in poi, un topolino dagli occhi tristi simboleggia l’Olocausto.

L’espressionismo tedesco
Dal punto di vista artistico, Spieghelman riprende nel disegno l’espressionismo tedesco. In realtà l’espressionismo è per antonomasia quello tedesco. La forza, la deflagrante cattiveria espressiva, la furia rivelatrice espressionista è soprattutto quella germanica: non l’hanno avuta nè Matisse (1869-1954), né i fauves troppo solari e mediterranei.
L’espressionismo tedesco nasce nel 1905 quando un gruppo di quattro architetti si uniscono a Dresda e formano un gruppo chiamato Die Bruke (il Ponte), un ponte verso l’avvenire che con un progetto molto ambizioso e bellicoso vorrebbe spazzare via un’arte precedente considerata ormai obsoleta grazie alla forza dirompente di un segno che “esprima” e generi emozioni vere, sprigionando tensione attraverso per esempio la rinuncia della linea curva in favore della durezza della linea spezzata. In confronto il fauvism appare un idillio di colori e forme. Prendendo spunto dall’espressionismo Spiegelman utilizza quanto di più autenticamente germanico abbia prodotto l’arte del XX secolo “accontentando” il Fuhrer che prediligeva tutto ciò che era squisitamente tedesco.
Nella scelta del bianco e nero per il suo fumetto, Spieghelman opera nello stesso modo (trenta anni prima) di Steven Spielberg nel film Schindler’s List. Questa assenza deliberata di colori è un segno quanto mai minimalista, ma quanto mai efficace nel mostrare solo ciò che è essenziale alla narrazione per immagini e assolutamente impermeabile a qualsiasi tentazione autocommiserativa.
Ma Maus non è solo questo: non è solo una storia, magistralmente narrata dal punto di vista artistico, di una sola persona, ma attraverso questa vicenda personale ci è presentato, in modo fedele, preciso e storico, un ampio squarcio di storia novecentesca.

La storia di una comunità attraverso quella di un singolo
Dagli anni trenta con la presa di potere di Hitler, alle leggi di Norimberga del ’35 all’invasione della Polonia e l’inizio della guerra e delle deportazioni, alla vita nei campi di concentramento e la fine della guerra. Spiegelman parla anche della complicità delle autorità ebraiche nelle deportazioni, di quanto in ogni caso il denaro è più forte di ogni ideale, del disprezzo gratuito dei polacchi nei confronti degli ebrei, quando in realtà si trovavano tutti nella medesima situazione, e molto altro.
Maus quindi narra la storia dell’olocausto attraverso la storia di un singolo, ed è per questo che è definito un’espressione culturale: diffonde, attraverso la semplice ed efficace struttura del fumetto, un messaggio che dovrebbe essere conosciuto da tutti: “Ricorda che questo è stato” (cit. dall’album visivo della shoah: destinazione Auschwiz).

(1. continua)

di Anna Irma Farinaro