Cultura

Addio alla verità, la lotta del filosofo con l'enigma del mondo

La conoscenza umana ripete, nel cogliere la realtà, i caratteri della natura umana, ovvero lo sforzo di conservare il proprio essere, che ne è la base. Sossio Giametta recensisce il libro di Gianni Vattimo

05 settembre 2009 | Sossio Giametta

Che l’uomo non attinga le verità ultime, si sa da sempre, ma con particolare perspicuità da Pascal in poi, sicché del mondo, dell’universo, della realtà, non si danno che interpretazioni, quelle interpretazioni e abbreviazioni che noi e tutti gli esseri siamo; che l’uomo non possa da nessuna parte bucare il manto di antropomorfismo che lo separa dal noumeno; che l’uno originario ci si frantumi nella molteplicità attraverso le forme a priori dell’intuizione (spazio, tempo e categorie, ridotte da Schopenhauer alla sola causalità), lo sappiamo da Kant in poi. Necessariamente antropomorfica, la conoscenza umana ripete, nel cogliere la realtà, i caratteri della natura umana, in particolare il conatus suum esse servandi, lo sforzo di conservare il proprio essere, che ne è la base.

Come tutte le cose, anche la natura umana è soggetta alla storia, cioè al mutamento. Ma in essa le cose mutano con ritmo diverso: alcune rapidamente, altre lentamente, al punto che le si potrebbe quasi dire eterne. In politica le cose cambiano rapidamente; in religione meno rapidamente, nella struttura umana di base ancora meno rapidamente; la filosofia che si occupa soprattutto di queste ultime, non va quindi confusa con la politica.

Tutto questo non ha comunque impedito di vedere la lotta del filosofo con l’enigma del mondo, che costa sudore e sangue, come una lotta titanica; di vedere nell’amore e nella ricerca della verità un sacro furore (théia manìa); nella scoperta e conteplazione della verità la ricompensa ai sacrifici fatti per cercarla (“…colui che ha trovato la verità, che è un tesoro ascoso, acceso dalla beltà di quel volto divino, non meno diviene geloso perché non la sia defraudata, negletta e contaminata…” – Giordano Bruno). Dunque la ricerca della verità è un fatto di grandezza, come tale individuale, sicché vale qui il detto di Eraclito, che uno vale più di centomila. Lo stesso Nietzsche, che ha proferito la frase fatale: “Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”, vanta, contro i sapienti famosi aggiogati come asini al carro del popolo, la sua “saggezza selvaggia”, che, come la vela che trema sotto la furia del vento, trema sotto la furia dello spirito.

Nel suo Addio alla verità (Meltemi, pagine 144, euro 13) Gianni Vattimo riassume le conseguenze tratte dalla filosofia contemporanea dalle suddette premesse. Ma, pur con buone intenzioni, finisce col fare della filosofia una cosa misera. Anzitutto non considerando che la verità, oltre che contemplazione dell’essere, data solo parzialissimamente, può avere un senso dialettico, opporsi cioè alla falsità, e come tale essere oggettiva e definitiva, come quando per esempio si afferma che è la terra che gira intorno al sole e non viceversa. Poi non considerando che è sempre e solo nella sfera extraumana che i fatti sono interpretazioni.

Nella sfera intraumana, che soprattutto interessa agli uomini, i fatti sono diversi dalle interpretazioni. La morte di Dio, per esempio, è sicuramente un’interpretazione; ma lo è anche la morte di una persona cara? Solo se si dubita, come Pirrone, che i defunti possano essere vivi e i vivi defunti. Il libro è tuttavia utile e istruttivo, sia in senso positivo sia in senso negativo. È uno spaccato della filosofia contemporanea e il manifesto della filosofia dell’Autore, scritto con apprezzabile chiarezza là dove il pensiero è chiaro (non dove si ingarbuglia in ragionamenti improbabili, come per esempio in fatto di etica).

Ecco alcune delle conclusioni a cui esso mette capo: bisogna passare dalla verità alla carità (amica veritas sed magis amicus Plato); la verità non è la corrispondenza alle cose, ma il consenso con cui si giudica la corrispondenza; gli scienziati non sono mossi dall’amore della verità ma da interessi personali, magari dal desiderio del Nobel; il bisogno di verità vale solo se ispirato dal desiderio di rendere giustizia ai sofferenti; una teoria che non comprenda il filosofo non rispecchia la realtà; dobbiamo renderci conto del paradigma in cui siamo gettati e sopenderne la pretesa di validità, a favore dell’ascolto dell’essere in quanto non detto, cioè della voce dei perdenti della storia; la filosofia diventa pensiero politico; la filosofia non deve rispondere alla verità ma alla ricomposizione dell’esperienza per un’umanità storica che vive la frammentazione della divisione del lavoro, della specializzazione dei linguaggi ecc.; la filosofia è un’interpretazione dell’epoca che mette in forma un sentire diffuso sull’esistenza attuale; la Chiesa che è contro i gay e il sacerdozio alle donne preferisce l’ “ordine naturale” al messaggio di Cristo; studiare la fisica non è studiare la verità della fisica, ma divenire membro di una società segreta o pubblica; il cristianesimo non deve essere religione, ma solo carità; la razionalità consiste nel presentare argomenti decenti agli altri; siamo capaci di dire la verità solo quando ci mettiamo d’accordo con gli altri; alla verità deve subentrare la carità; Heidegger teorizza la differenza ontologica, ma poi la dimentica nella mitizzazione della Germania hitleriana come una nuova Grecia preclassica in cui l’essere è ancora presente; la metafisica non può essere superata (Heidegger); un enunciato è vero non in relazione alle cose, ma se va bene alla nostra comunità piccola o grande; la verità è ciò che va bene per noi.

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