Cultura
Già nell'Antica Roma si importava olio di oliva tunisino
Le testimonianze negli scavi archeologici in via Appia Antica 39 dove si evidenziano condutture per offrire ai defunti latte, miele, vino, farina e anche olio di oliva. Dai tituli picti delle anfore olearie sappiamo anche la sua provenienza, forse meglio di oggi
16 ottobre 2025 | 14:00 | Giosetta Ciuffa
Regina Viarum, nota in tutto il mondo, e primo asse stradale quasi più antico di Roma stessa: quella che sarebbe poi diventata l’Appia Antica era infatti il tracciato che le popolazioni dai Colli Albani (Alba Longa) percorrevano per raggiungere l’approdo sul Tevere, punto di accesso facilitato là dov’è l’Isola Tiberina. Un percorso attraverso l’acquitrinosa e piena di saliscendi valle dell’Almone, il terzo fiume di Roma che proprio dai vulcanici Colli Albani si originava e, passando per il Monte d’Oro, arrivava nell’Urbe.
Nell’ambito del festival Cerealia si è tenuta una visita agli scavi archeologici in via Appia Antica 39 (a breve verranno interrati) che hanno svelato sepolcri collettivi in un’area sacra nei terreni del Comune di Roma per anni occupati da privati e poi espropriati, oggi restituita alla cittadinanza. E cittadini erano anche - o lo sarebbero divenuti - coloro che in quest’area sacra si allenavano, a cavallo, perché erano rari gli spazi aperti che potevano essere sfruttati a tale scopo, spiega la prof. Rachele Dubbini dell’Università di Ferrara. L’area sacra era infatti consacrata a Marte Gradivo (“che avanza in battaglia”) e adibita a esercizi ginnici e militari. Si pensa subito al Campo Marzio che tutti conosciamo ma Marte in città entra molto dopo, con Augusto, ed è Ultor (vendicatore). Fino ad allora il dio ne restava fuori, a difesa, mentre all’interno regnava la pace sociale; e nella valle dell’Almone, popolata da divinità ctonie, era necessaria una protezione a favore degli umani, evocata con la consacrazione del luogo al dio della guerra, al quale dopo il sacco gallico del 390 a.C. fu inoltre eretto un tempio purtroppo non rinvenuto. Per via dell’espansione verso sud nel 312 a.C. venne poi inaugurata l’Appia, collegamento con il porto di Brindisi da cui partivano le navi per la Grecia e l’Oriente.
In via Appia Antica 39 è emerso un complesso funerario con inumazioni, secondo l’uso romano, e cremazioni (orientale): nel II secolo d.C. Roma viveva il massimo sviluppo quindi si usavano entrambi i tipi di sepoltura. Da evidenziare il rituale delle libagioni, delle quali in questi scavi sono visibili le condutture per offrire ai propri defunti latte, miele, vino, farina e anche olio. Il cibo infatti rivestiva un ruolo fondamentale, per i romani il banchetto sulla tomba (silicernium) era parte del rito funebre. L’olio assumeva maggiore importanza nel mondo greco (pensiamo alla parola “Christos” che vuol dire “unto”, come anche “messia” in ebraico): nell’antica Roma non ne veniva prodotto in gran quantità e, come oggi, bisognava procurarselo da fuori. Arrivava via nave riposto in anfore esclusivamente da trasporto per olio, vino, garum (la salsa ottenuta da interiora di pesci fermentati, poco appetibile forse ma esplosione di gusto per la loro cucina poco saporita), alte tra 1,20 e 1,40 metri, dotate di puntale per fissarle in casse piene di sabbia oppure in assi di legno forate a evitarne il rotolamento in navigazione. Tra quelle rinvenute, alcune sul fondo ancora conservano i residui dell’olio, motivo per cui si disinfettavano con calce prima di finire in discarica (e costituire il monte Testaccio).
L’incontro è stato anche occasione, con un balzo di millenni, per parlare di olio di oliva tunisino, che dai tituli picti delle anfore olearie sappiamo esser stato trasportato: “Nell’annata 2024/25 la Tunisia è stata seconda solo alla Spagna in quanto a produzione e globalmente al quarto posto nell’export: sono state prodotte più di 340mila tonnellate di cui esportato il 70% (10% della produzione mondiale)”, afferma il consigliere economico dell’ambasciata della Tunisia Mohamed Mehrez. 240mila le tonnellate esportate quest’anno verso l’Italia; tra i principali buyer Usa, Canada, Spagna ma “prima è l’Italia, con il 33%, e il 50% di olio biologico”. Olio sfuso, ovviamente: “Se vi domandate come mai non trovate olio tunisino allo scaffale, è perché si tratta di vendite all’ingrosso. La Tunisia sta lavorando per esportare il proprio olio con brand e package tunisini. L’export è aumentato del 45% verso Usa, Canada, Brasile, Thailandia e alcuni Paesi africani e arabi”. La Tunisia sta imitando nel deserto il modello superintensivo spagnolo con la tendenza a impiantare nuovi oliveti sulle enormi superfici desertiche, disponendo di cultivar più resistenti (ma ha piantato anche Arbequina, Arbosana e Coratina). Le cultivar più conosciute sono la Chemlali e la Chetoui. La Chemlali è una varietà molto diffusa e più resistente alla siccità, originaria della città di Sfax, e che produce oli poco amari e lievemente piccanti, a volte con note di pomodoro. La Chetoui dà un olio fruttato, con profumi di erba tagliata, e con buon contenuto di fenoli e antiossidanti. “Quello della Chemlali è un olio che potremmo definire ‘morbido’ mentre la Chetoui regala un olio più piccante e con sentori di rosmarino – aggiunge Paola Fioravanti dell’Umao (Unione mediterranea assaggiatori oli) –. Rappresentano il 70% e il 10% dell’olivicoltura tunisina, che sta facendo grandi passi in avanti nel biologico e nelle olive da mensa, che condiscono diversamente; hanno sostituito l’aceto con il limone”.
Nella foto di apertura: La decorazione (II secolo d.C.) del pavimento della necropoli di età imperiale mostra un pavone che mangia gli acini dalla vite. Si intravedono a sinistra le condutture per le libagioni.
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