Cultura
Gli Etruschi e la loro strardinaria cultura per l'olivo, l'oliva e l'olio di oliva

La scoperta dell’olio d'oliva, in Etruria, la dobbiamo alle donne che, a seguito degli scambi commerciali, avevano apprezzato i profumi, contenuti in particolari contenitori, provenienti dalla Grecia e dall’Egitto. Nel VII secolo a.C. inizia in Etruria la produzione di olio alimentare
03 settembre 2025 | 15:00 | Alessandro Vujovic
Gli Etruschi (in etrusco: Ràsenna, oppure Raśna, in greco Rasennas o Tyrsenoi cioè Tirreni, in latino Tusci o Etrusci, da cui i termini Etruschi ed Etruria) era un popolo vissuto dal XII secolo a.C. fino il I° secolo d. C., quando si sono fusi con il popolo dei Romani, dei Sanniti e dei Galli.
Occupavano i territori dell’Etruria, sul versante tirrenico dell’Italia centrale, oggi terre della Toscana, Umbria e del Lazio.
Nel 750-500 a.C. si sono espansi a nord, oltre il fiume Po, a confine con i Galli ed i Veneti, poi fino alla sua foce, nell’Adriatico; verso est con gli Umbri, i Sabini, gli Equi, i Volsci ed i Sanniti, spingendosi fin sotto Napoli (“etruschi di frontiera” a Pontecagnano).
Gli studiosi concordano, dagli studi di archeogenetica sul DNA mitocondriale ed autosomico del cromosoma Y, che gli Etruschi fossero una popolazione autoctona, geneticamente simili ai Latini, del Latium vetus, arrivati dalla steppa Euroasiatica dell'Europa centrale, nell'età del Bronzo.
Avevano contatti commerciali con le popolazioni greche, con l'emporio di Cuma (Pozzuoli) e di Pithecusa (Ischia), come riporta Esiodo nel poema Teogonia; anche l’alfabeto era di matrice greca, con lettere fenicie, una variante euboico-calcidese, che in quel periodo era in uso negli antichi coloni greci della Campania.
I contatti commerciali erano anche con le colonie greche della Magna Grecia e della Sicilia, con la stessa Grecia e l’area tirrenica.
Anche l'arte era influenzata dai modelli artistici dell'arte greca.
Gli Etruschi commerciavano con l'Oriente greco e con i fenici-cartaginesi, il rame, l’argento e soprattutto il ferro, avendo sviluppato l'estrazione e la lavorazione grazie alle miniere, presenti nel territorio.
Acquistavano vasellame, armi, strumenti per la filatura, contenitori con profumi ed anche olivi, olio e vino, di provenienza greca.
L’olio ed il vino, da beni preziosi di marca esotica, come beni di lusso, in seguito diventano prodotti di largo uso, come attestano i contenitori nei corredi tombali: particolarmente diffusi sono piccoli balsamari in bucchero e in ceramica figulina, che imitano gli aryballoy e gli alabastra corinzi di importazione.
La produzione di olio si diffuse, nella penisola italica, grazie ai Rasenna, tranne al sud dove, già da secoli, erano giunti i coloni greci.
L’olivo per i greci era elaìa, per gli etruschi eleiva ed amòrghe, indicava la morchia utilizzata come concime, nella concia delle pelli e nel trattamento del legno.
La scoperta dell’olio, in Etruria, la dobbiamo alle donne che, a seguito degli scambi commerciali, avevano apprezzato i profumi, contenuti in particolari contenitori, provenienti dalla Grecia e dall’Egitto.
Iniziarono così ad usare questi oleoliti per profumare la pelle ed i capelli, come testimoniano i contenitori, rinvenuti negli scavi archeologici, prodotti a Corinto e nelle città greche dell’Asia Minore, cui si aggiunsero gli unguentari (lekythoi) di Atene, i vasetti in vetro dalle isole dell’Egeo orientale ed anche gli “alabastra”, in alabastro dall’Egitto.
Spesso, sul vasellame dei profumi, prodotto poi in Etruria appaiono incisi, i nomi delle proprietarie.
A partire dal VII-VIII° secolo a.C. inizia una differenziazione sociale, che porterà alla nascita delle aristocrazie, le quali avranno corredi funebri più ricchi e tombe con affreschi della vita quotidiana, preziosissima fonte di ricostruzione delle ambientazioni e delle cerimonie aristocratiche, quasi dei “fermi immagini”.
Nel VII secolo a.C. inizia in Etruria la produzione di olio alimentare, dei recipienti per contenerlo ed i contenitori destinati alle essenze di olio, che imitano gli aryballoy e gli alabastra corinzi di importazione.
I profumi a base di olio erano considerati uno status symbol degli aristocratici, come prodotto di bellezza e le fragranze più richieste erano mirra, cannella, zafferano, nardo, aloe e cipro; duecento anni dopo, subentrarono la noce moscata, il sandalo, il muschio, costus, ambra grigia ed il benzoino.
In pratica l’olio, prodotto all’inizio della maturazione delle olive, catturava l’odore, con un procedimento di “enfleurage” (utilizzando fiori di arancio, gelsomino, violette, giglio, rosa, alloro, mirto, nardo, cardamomo e maggiorana).
Teofrasto, filosofo e botanico greco, riporta nel trattato “De odoribus” che i Tirreni erano definiti “pharmakopoioi”, ovvero produttori di medicinali e di cosmetici.
L’olivo per gli Etruschi era anche una pianta sacra, tanto che le sacerdotesse portavano i rami nelle processioni in onore alle loro divinità (in analogia a quelle greche). Nelle cerimonie religiose, simboleggiava la purezza e illuminava le lampade dei santuari.
Questi profumi era un potente strumento di collegamento col mondo divino: bruciando le erbe aromatiche, resine da conifere, negli incensieri, come offerta nelle cerimonie religiose, i fumi salivano fino alle divinità oppure usavano oli profumati per ungere i corpi dei defunti, da consegnare all’Oltretomba.
Veniva anche usato per l'illuminazione delle case e degli spazi pubblici e per scopi medicinali (antidolorifico e per preparare oleoliti con erbe medicinali).
L’olio d'oliva era un alimento nella dieta etrusca, soprattutto delle classi aristocratiche, utilizzato per cucinare e per conservare alimenti.
Si consumavano anche olive, addolcite con la salamoia, poi profumate con finocchio secco e frutti di lentisco.
Le analisi sulle ossa ha dimostrato che seguissero una “dieta agricola”, sul modello di quella arcaica greca. Le indagini paleonutrizionali di mineralometria ossea, hanno mostrato un alto tasso di stronzio tipico di una dieta ricca di vegetali ed un basso tasso di zinco caratteristico di una dieta povera di carni, pesci e molluschi.
Dal punto di vista archeologico, oltre i reperti delle tombe, possiamo menzionare il relitto della nave del Giglio, datato al 600 a.C. che conservava anfore etrusche piene di olive da tavola.
Inoltre nella tomba di Cerveteri conosciuta con il nome di “Tomba delle Olive” (575-550 a.C.), vi sono stati trovati i noccioli di questi frutti, come offerta per il defunto.
Era in uso, come companatico, una conserva di olive, l’epityrum, dove i frutti (cultivar: orcite, pausiane e nevia) venivano fatti asciugare e pressare, dopo averli sminuzzati, lasciati “a riposo” con sale, bacche di lentisco e semi di finocchio. Queste cultivar, in alcune preparazioni, dopo il “sotto sale”, venivano conservate nel mosto cotto, sapa defrutum,.
In altri casi le olive si conservavano sott’olio oppure marinate in aceto e, come diceva Marziale, costituivano sia l’inizio che la fine di un pasto.
Con le olive verdi si facevano le colymbadas (le affiorate), così dette perché galleggiavano sulla salamoia satura con aceto, poi scolate erano sistemate, nei vasi, con prezzemolo e ruta.
Le olive più grosse, diventavano ottime conserve, in tal caso fornivano un nutriente companatico.
Fino al VII secolo a.C., l’olio veniva importato dalla Grecia, anche per scopi ginnici, poi inizia, per maggior consumo, una produzione locale. In ambito sportivo, era utilizzato dagli atleti, soprattutto i lottatori, per tonificare le membra e sfuggire la presa dell’avversario; a volte si vede raffigurato un vaso con l’olio (aryballos), legato ad un braccio dell’atleta. In queste raffigurazioni premiali, copiavano un’usanza dell’antica Grecia.
Inoltre raccoglievano lo zafferano, che mescolato all’olio diventava un ingrediente per stimolare l’eros, questo unguento crocino aveva un suo specifico “uso topico”.
La coltivazione ed il consumo, largamente diffuso, era quella di cereali, legumi e di erbe (farro, orzo, piselli, miglio, veccia sativa, ghiande, cicoria, fichi, fave, prugnolo, formaggi, latte, cavoli, rape, bietole, porro, castagne, frutti selvatici; le carni erano di maiale, cinghiale, lepre e cacciagione) oltre la produzione di olio e vino.
Lo scrittore Marco Terenzio Varrone nel suo “De re rustica” riporta che la produttività cerealicola dei terreni era eccezionale, in quanto vulcanici, seguiti per diffusione, dalla coltivazione della vite ed, al terzo posto, da quella dell’olivo. Un eccesso di produzione era destinato a scambi con i popoli del Tirreno.
Questa pratica agricola è documentata dagli attrezzi di lavoro rinvenuti nei santuari, offerti come doni votivi, dai modellini in bronzo di aratri, di animali domestici, come i buoi e dai contenitori per conservare le derrate alimentari.
Che l’olio servisse per condire lo conferma l’iscrizione in un’anfora “Aska mi eleivana” ossia “sono un’anfora da olio”; dove il nome eleiva deriva dal dorico-greco, eleiwa.
La produzione di olio d'oliva ed i suoi usi sono stati tramandati dagli Etruschi di generazione in generazione, influenzando i Romani e proseguendo fino all'era moderna.
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