Cultura 15/09/2007

AGRICOLTURA & SALUTE MENTALE. LA POSSIBILITA' DI VIVERE ALL'ARIA APERTA E DI COLTIVARE LA TERRA APPORTA NOTEVOLI BENEFICI. OGGI LE FATTORIE SOCIALI SVOLGONO UN RUOLO DETERMINANTE

Un saggio di Alfonso Pascale sulle menomazioni mentali e sulle funzioni terapeutiche e riabilitative proprie delle attività agricole, con un documentato percorso nel tempo, dall'età dei Lumi sino ad oggi. In passato, per esempio, le colonie agricole erano diventate la nuova frontiera per risolvere il problema della crescente massa di malati cronici


Alfonso Pascale

Fin dalle prime battute, il dibattito scientifico che dette vita alla disciplina psichiatrica tenne in considerazione le peculiarità terapeutiche e riabilitative delle attività agricole. Tra i primi a scoprirle è stato alla fine del XVIII secolo Benjamin Rush, considerato uno dei padri della psichiatria americana.
In ancien régime, gli infermi di mente venivano ricoverati negli ospedali civili e curati come gli altri malati e spesso finivano incatenati in qualche orrendo cronicario. Nell’età dei Lumi la cura dei disturbi mentali venne, invece, assunta dal progetto illuministico di riforma dell’ospedale come percorso di “normalizzazione”, cioè di riconduzione dell’alienato, come veniva chiamato all’epoca l’infermo mentale, alla razionalità e al senso comune.
Pertanto, curare la follia significava affrontare in chiave diagnostica il problema dei confini tra ragione e non ragione, per superarlo nell’ambito del processo terapeutico. Non si trattava quindi soltanto di guarire un ammalato ma di raccogliere la sfida utopica alla razionalizzazione della società. L’ordinato sviluppo della società richiedeva, secondo il pensiero illuministico, un complesso intervento di riforma delle istituzioni, al quale lo scienziato e il medico dovevano dare il loro fondamentale contributo. Nel contesto della riforma ospedaliera si delineava in tal modo un progetto istituzionale di cura della follia di vasta portata. Progettato nell’ambito di una complessa utopia di “normalizzazione” dell’etica sociale, il manicomio doveva quindi assumere un significato del tutto particolare nel piano di ricomposizione del malato di mente, divenendo esso stesso l’essenza della cura, la rappresentazione spaziale e temporale della razionalità.
In quel progetto il lavoro agricolo è considerato “una sorta di contrappeso agli smarrimenti dello spirito, per l’attrattiva e il fascino che la coltivazione nei campi ispira, per l’istinto naturale che porta l’uomo a fecondare la terra e a provvedere in tal modo ai propri bisogni con il frutto del proprio lavoro”.
Tuttavia, pochi avvertivano l’aporia tra il modello “manicomio” e le prerogative attribuite all’attività agricola.

La salute mentale nelle campagne e nelle città
Le menomazioni mentali erano molto comuni nella società rurale. Basta scorrere i dati dei coscritti non idonei al servizio militare per rendersi conto delle diffuse affezioni presenti nelle campagne dell’Ottocento e della prima metà del Novecento.
Parecchi casi di minorazione erano dovuti ai matrimoni tra parenti stretti, che venivano contratti sia in ossequio al pregiudizio tradizionale che faceva disapprovare la ricerca della consorte fuori della propria comunità, sia a causa dell’isolamento in cui si trovavano le diverse aree rurali.
Le persone con disabilità psichiche erano generalmente accudite dalle proprie famiglie e spesso trovavano nelle medesime fattorie e nei villaggi rurali mansioni da svolgere.
Con l’inurbamento dei contadini e il loro impiego nel lavoro industriale anche nelle città s’incominciò a registrare un notevole incremento di persone affette da disturbi mentali. I ritmi e i sistemi assolutamente diversi da quelli del lavoro dei campi causavano assai sovente forme di disagio e di estraneamento ai nuovi abitanti dei centri urbani. Ma non avendo le città un’organizzazione degli spazi e dei tempi in grado di includere nel contesto sociale le persone affette da disturbi mentali, erano in molti a varcare i cancelli degli spaventosi cronicari dell’epoca ed a rimanervi reclusi e incatenati per il resto della loro vita.
Nonostante l’isolamento, in campagna si viveva in modo completamente diverso dalla città: i corpi operavano al ritmo imposto dal cuore e dai polmoni e i canti imitavano il ritmo con cui veniva compiuta l’attività lavorativa. Erano, inoltre, i ritmi stagionali e liturgici a determinare presso i contadini il senso del tempo. Ogni situazione aveva il suo precedente e rimandava ad altra situazione uguale o analoga. Passato e presente non erano distinti, ma facevano tutt’uno e formavano un continuo vissuto e non una serie di tante unità scandite dall’orologio. Una festa o un falò, un raccolto buono o uno cattivo, un evento di famiglia vivevano nel ricordo e servivano da punto di riferimento più naturale che il ricorso al calendario.
E’ per questo che i canti e i racconti su fatti vecchi di un secolo continuavano a sollevare forti emozioni. Aveva valore relativo e, anzi, era pressoché senza importanza che un fatto fosse accaduto di recente o in un lontano passato. Il tempo tradizionale non aveva unità di misura invariabili e non prevedeva neppure uno stacco tra lavoro e svago. Anche la perdita di tempo (l’andare e venire, le pause, le attese) era in larga misura inavvertita perché integrata nella routine quotidiana e perché non era mai cosa su cui discutere.
Nella lingua italiana con la parola “tempo” si indica sia l’andamento meteorologico sia la durata. Noi oggi distinguiamo le due cose, ma non così il contadino le cui ore più lunghe dedicate al lavoro venivano con il bel tempo estivo. Per lui il tempo era lavoro e il lavoro era un modo di vivere, non già un modo di guadagnarsi da vivere.
Alla luce di queste considerazioni appare in tutta evidenza quanto acuti dovessero manifestarsi il disagio e l'alienazione di quella parte di popolazione rurale che andò ad abitare nelle città ed a lavorare nelle fabbriche, dove si praticavano ritmi di vita del tutto diversi.


Le colonie agricole
Laddove si prese coscienza che il disagio mentale era provocato dal passaggio repentino a modelli di vita urbana ed al lavoro industriale, si tentò di rimediare attingendo alle medesime risorse del mondo rurale. Fu questo il caso degli alienati di Gheel, popoloso villaggio del Belgio centrale, ma anche della colonia agricola di Clermont-Ferrand, in Francia, e del Ritiro di York, in Inghilterra.
Gheel era un centro poco distante da Anversa che contava agli inizi dell’Ottocento circa 7 mila abitanti ed era famoso perché centinaia di pazienti psichici venivano stabilmente affidati dai parenti alle famiglie che vi abitavano, a pensione. Nel paese, dove mancava qualsiasi asilo speciale per ricoverarli, i folli erano ospitati in numero di uno, due, raramente tre o più, nelle case dei contadini del villaggio o nelle fattorie della campagna circostante.
Nella colonia belga gli alienati partecipavano semplicemente alla vita e, per quanto possibile, al lavoro dei loro ospiti. Ciò che più colpiva chi accorreva a visitare il villaggio era la constatazione che, “sebbene liberi, questi ammalati non (erano) mai cagione d‘accidenti gravi per le donne incinte, né per i fanciulli”. Eppure Gheel ospitava un numero tutt’altro che trascurabile di folli: dalle 400-500 persone del 1821 si passò infatti a circa 800 a metà del secolo.
Nella colonia agricola di Clermont-Ferrand, un centro molto importante del Massiccio Centrale della Francia, veniva invece adottato il modello della fattoria distaccata dall’ospedale psichiatrico, dove i ricoverati erano occupati nelle varie mansioni agricole nella convinzione che la vita e il lavoro dei campi costituivano “uno de’ più preziosi mezzi di guarigione e di ben essere per li alienati”. La creazione di fattorie connesse o distaccate dai manicomi era considerata “un nuovo progresso nella sorte degli alienati” ed ebbe una certa diffusione nell’Europa settentrionale.
Il Ritiro di York era stato fondato nel 1796 da Samuel Tuke, che faceva parte della Società dei Quaccheri, un’aggregazione religiosa che fin dal 1649 si era occupata dei malati di menti sotto la guida di George Fox. Il Ritiro era una casa di campagna dove gli infermi mentali avevano la possibilità di vivere all’aria aperta e coltivare orti e giardini in contatto con il mondo esterno, ricavandone indubbi benefici per le proprie condizioni di salute.


In Europa il manicomio fu subito messo in discussione
Il manicomio trovò una sua progressiva definizione istituzionale nella prima metà del XIX secolo, ma doveva entrare attorno agli anni Cinquanta di quel medesimo secolo profondamente in crisi in tutta Europa, da un punto di vista umanitario non meno che scientifico. Vasti strati di opinione pubblica, soprattutto in Francia e in Germania, denunciarono i caratteri liberticidi del sistema manicomiale.
In una vasta campagna di stampa i manicomi furono indicati come il più grosso errore dei tempi moderni, un residuo d’ignoranza e di barbarie. E’ Wilhelm Griesinger, uno dei più influenti rappresentanti della cultura medica del suo tempo, a mettere in luce con esemplare chiarezza la natura della crisi che attraversava la scienza delle istituzioni per i malati di mente. Egli sostenne con dovizia di dati che i manicomi considerati “buoni”, costruiti cioè secondo le più aggiornate teorie della psichiatria francese e tedesca, davano risultati altrettanto deludenti quanto le strutture che sembravano assolutamente “cattive”, soprattutto per quanto concerneva il problema della cronicizzazione dei ricoverati. E concluse che non era la specifica struttura spazio-temporale, il manicomio, capace di operare come principale agente terapeutico, ma al contrario qualsiasi sito, grazie all’opera di un buon medico, poteva diventare un luogo di cura.
Nel 1866 egli si era recato in visita presso la colonia agricola di Gheel, dove gli alienati, come abbiamo visto, erano ospitati nelle case degli abitanti del villaggio.
Ebbene, quella visita colpì profondamente Griesinger, che legò strettamente la sua ipotesi di un percorso di “liberazione” dei malati cronici a programmi di “colonizzazione”, come veniva chiamato l’affido dei malati a famiglie di contadini o la loro collocazione in fattorie.
Di fronte all’attacco all’istituzione manicomiale, le colonie agricole diventavano, dunque, la nuova frontiera per risolvere soprattutto il problema della crescente massa di cronici e recuperare i valori della vita all’aria aperta, del rapporto libero con la natura, del lavoro terapeutico per antonomasia: quello agricolo.
Nonostante l’ammirazione riscossa dall’esperienza di Gheel e l’interesse per le fattorie come luoghi privilegiati di inclusione sociale dei cosidetti alienati, diffusosi in vasti ambienti della psichiatria europea, il messaggio di Griesinger non riuscì tuttavia ad incidere sulle scelte di politica istituzionale e dette vita solo a programmi sperimentali in alcuni paesi.


In Italia bisognerà aspettare il movimento di Basaglia
In Italia queste nuove idee giungevano quando ancora non si era nemmeno messa a punto la riforma di stampo illuministico e dunque restò lettera morta. Dopo quasi mezzo secolo di vani tentativi per introdurre norme in materia di salute mentale, come da tempo era avvenuto in Francia ed in altri paesi europei, solo nel 1904 venne approvata la legge Giolitti. Incurante della profonda crisi che travagliava il pensiero psichiatrico sul valore terapeutico del manicomio, la normativa introdusse una connotazione puramente segregante della funzione manicomiale aprendo il varco ad una frattura insanabile tra sapere scientifico e realtà istituzionale.
Sarà Franco Basaglia, negli anni Sessanta del secolo scorso, ad indicare in modo prioritario l’urgenza di avviare un processo di trasformazione istituzionale che avrebbe dovuto concludersi soltanto con la distruzione della realtà manicomiale. Il problema centrale diventerà quindi non tanto definire nuovi progetti di riforma quanto giungere alla definitiva chiusura di un’epoca nella quale il pensiero psichiatrico aveva alimentato un’utopia sociale e scientifica per abbandonarla poi al suo naufragio.
Solo in una fase successiva, cancellata una volta per sempre l’incombente realtà manicomiale, si sarebbero potute create le condizioni per una riflessione capace di coinvolgere l’intera comunità attorno ad un progetto che muovesse utopicamente dal superamento della categoria mentale della “norma” quale assunto primario della condizione umana. Soltanto in una società in cui il valore fondamentale fosse l’uomo, nel suo concreto e quotidiano oscillare tra salute e malattia, il portatore di handicap, il menomato avrebbero potuto trovare un piano di comprensione dei loro bisogni reali, evitando la riproposizione, più o meno mistificata, di una risposta segregante.
La nuova normativa in campo psichiatrico che sarà varata nel 1978 si ispirerà direttamente al pensiero basagliano per recepire non solo la distruzione della “forma-manicomio”, ma assumere anche come proprio oggetto non più “la determinazione dei confini della malattia” e quindi “l’identificazione delle sue categorie” bensì il “trattamento della malattia”, identificato dalla capacità del sistema dei servizi territoriali di rispondere efficacemente al caso specifico. Il principio informatore della legge non sarà più la “normalizzazione” dell’alienato, come nei progetti riformatori ottocenteschi, ma il suo diritto alla “risposta al bisogno” attraverso la rete dei servizi sociali. Interrotto il canale di accesso al manicomio, “la contraddizione tra istituzione e territorio” verrà superata dalla territorializzazione dei servizi, che avrebbe dovuto promuovere “un nuovo ordine di processi sociali”.
E così l’agricoltura moderna, nelle forme imprenditoriali e multifunzionali in cui evolverà nei decenni successivi, tornerà ad essere con le fattorie sociali spazio di vita ed attività da privilegiare per le persone con disabilità mentali.


Le funzioni terapeutiche e riabilitative dell’agricoltura moderna
A partire dagli anni Trenta del secolo scorso si cominciarono a praticare programmi terapeutici e di riabilitazione basati sulla cura delle piante. Nel dopoguerra nacque e si è sviluppata nei paesi anglosassoni una vera e propria disciplina curativa che coniuga competenze mediche con quelle botaniche: si tratta dell’Horticultural Therapy, solo da pochi anni tradotta in Italia come “terapia assistita dalle piante”.
Le attività e le terapie assistite dagli animali sono, invece, nate in America nel 1953, grazie allo psichiatra infantile Boris M. Levinson, che, in base alla sua esperienza, le definì come “insieme di pratiche ben specifiche basate sull’incontro con un animale che non è di proprietà del fruitore, ma si colloca in un rapporto a tre dove il conduttore dell’animale ha come obiettivo la realizzazione di un rapporto che attivi le capacità assistenziali dell’animale in modo tale che il paziente ne usufruisca in base alla sua patologia”. Queste attività si sono sviluppate integrando le esperienze concrete con la Zooantropologia, scienza che studia le interazioni tra uomo e animali. A partire dagli anni Sessanta si è iniziato ad identificare l’utilizzo di animali da compagnia con il termine “Pet-Therapy” sostituito sempre più dalle più appropriate locuzioni “Animal Assisted Therapy” (A.A.T.) e “Animal Assisted Activities” (A.A.A.).
Nell’ambito delle attività e terapie assistite dagli animali, da oltre trenta anni nel nostro paese si pratica l’ippoterapia, che, contaminandosi virtuosamente con l’equitazione, ha contribuito alla diffusione dell’equitazione sociale. Inoltre, coi progressi conseguiti negli ultimi quindici anni dalla nuova etologia, oggi noi sappiamo molte cose in più degli equini oltre il sapere tradizionale e possiamo perfino porci dal punto di vista del cavallo nel nostro rapporto con questo animale.
Negli ultimi tempi si va, infine, diffondendo l’onoterapia, che si basa sulle relazioni particolarmente intense ed empatiche che l’asino riesce a stabilire con le persone.
Sempre più cresce l’evidenza empirica che il contatto con il ciclo della natura e della vita insito nell’attività agricola aiuta a conseguire maggiori livelli di autonomia e di senso di sé rispetto ad altre attività, da quelle industriali a quelle che si svolgono negli uffici, che sono più ripetitive, frustranti e spersonalizzanti, spesso fonti esse stesse di disagio. E tutto questo avviene anche perché noi esseri umani siamo portati, per via di un sentimento innato che il biologo Edward O. Wilson definisce "biofilia", a desiderare di vivere in prossimità di una distesa d'erba verde o di uno specchio d'acqua. Persino il volto più oscuro della natura - che si rivela con inondazioni, terremoti, uragani e altri cataclismi – è in un certo senso necessario alla completezza dell'esperienza umana: esso è, infatti, il simbolo di quella dimensione selvaggia, di quella regione del mistero che da sempre è fonte di ogni poesia.
Per una larga parte del mondo scientifico, le risorse specifiche dell’agricoltura e del mondo rurale sono, in definitiva, sempre più considerate leve utili per potenziare e qualificare i percorsi di inclusione non soltanto dei disabili mentali, ma anche di una sempre più larga varietà di soggetti deboli.

di Alfonso Pascale