Cultura
Fare l’olio di oliva alla maniera degli antichi Egizi è ancora possibile

Testare, anche a casa, un processo di archeologia sperimentale per scoprire alla fine che l’olio extra vergine di oliva odierno è migliore di quello degli antichi Egizi
09 dicembre 2022 | Giosetta Ciuffa
Oltre a coloro che cercano di migliorare la frangitura delle olive con un occhio al futuro, al fine di un prodotto sempre migliore, c’è chi invece riproduce antiche tecniche di molitura non per testarne l’applicabilità in tempi odierni ma per colmare eventuali lacune storiche nei procedimenti che hanno portato all’elaiotecnica moderna, dei quali si ha una descrizione bibliografica e iconografica nelle fonti archeologiche. Molte di queste tecniche sono infatti descritte in volumi antichi che sono principalmente greci, romani e fenici: oltre all’ormai perduto trattato del padre dell’agricoltura Magone il Cartaginese, a discutere di olive, olio e corrette pratiche colturali ci sono Columella, Palladio, Plinio e Catone il Vecchio. Insieme al vino e al grano, e talvolta anche al formaggio, l’olio d’oliva era una delle principali merci nel Mediterraneo e veniva utilizzato come combustibile per cucinare, illuminare e riscaldare oltre che per igiene personale e nella dieta quotidiana.
Ricostruire tali antiche tecniche è uno dei metodi di cui si avvale l’archeologia sperimentale per testare quelle ipotesi con un riferimento diretto alla documentazione archeologica e impossibili da ottenere solo esaminando i manufatti originali. Se ne è avvalso Emlyn Dodd, vicedirettore di Archeologia presso la British School at Rome e archeologo specializzato proprio in agricoltura, tecnologia, commercio ed economia di Grecia e Roma antiche, soprattutto riguardo olio e vino. Nell’autunno australiano, a metà maggio, Dodd si è cimentato in questa prova di archeologia sperimentale: ottenere olio d’oliva come si faceva in Egitto secondo la spremitura per torsione raffigurata in vari dipinti murali di Antico, Medio e Nuovo Regno egiziano. Il metodo consiste nel riempimento di un sacchetto permeabile con le olive - già pressate - e nell’inserimento di bastoncini alle estremità del sacchetto per ruotarli in direzioni opposte, comprimendo quindi il contenitore in modo che l’olio filtri. Il primo esempio conosciuto di questo sistema si trova nella tomba di Nebemakhet intorno al 2600-2500 a.C.; ci sono inoltre prove di utilizzo di sacchetti a torsione nella Venezia preindustriale, in Spagna e in Corsica, oltre che nell’Italia dell’inizio del XX secolo.
Secondo le indicazioni rinvenute, le olive andavano lavate prima della lavorazione e così ha fatto Dodd, che per la frangitura ha poi utilizzato semplici mortaio e pestello, una tecnica documentata archeologicamente dal 5000 a.C. circa: cosa che riferisce essere stata piuttosto faticosa, soprattutto quando si è trattato di frangere le olive verdi meno mature. Non sorprende che nel corso del tempo siano stati fatti progressi fino a mortai rotanti più grandi, chiamati trapeta (o anche la mola olearia, molto simile), per lavorare con facilità maggiori quantità di olive. Il trapetum romano consisteva in una grande pietra (mortarium) nella quale la frangitura avveniva mediante due pietre concave (orbes) fissate alla cupa, una trave centrale retta da un perno di ferro (columella); questo frantoio si incastrava poi nel miliarum, un palo centrale inserito nella coppa che permetteva di far girare le pietre.
La polpa franta è stata quindi messa in un sacchetto di garza, provando a torcere entrambe le estremità o una sola; immergendolo inoltre in acqua calda prima di torcerlo, come richiesto dal metodo. Una leggera pressione ha ottenuto i risultati sperati di un lento ma costante gocciolamento, con il panno che tratteneva i materiali solidi. Si sono resi necessari più strati di tessuto per evitare strappi, ma questo ha anche reso il processo di filtrazione più lento e meno permeabile.
Tra i metodi tentati, i migliori risultati si sono ottenuti grazie al compromesso di una pressatura delicata e lenta, torcendo una sola estremità. Alcuni metodi di spremitura hanno separato l’olio dall’acqua vegetale in pochi minuti; altri invece non portavano alla separazione nemmeno dopo molte ore, restituendo una densa miscela marrone (l’amurca romana, ossia… morchia). Nonostante il fatto che non si conoscano quasi prove archeologiche di impianti oleari reali nell’Egitto faraonico, con l’iconografia che fornisce gli unici veri indizi, tale esperimento ha dimostrato la possibilità di spremitura delle olive e produzione di olio usando un metodo che ci viene dagli antichi Egizi.
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