Editoriali

IL DOLORE PERFETTO

10 luglio 2004 | Carlotta Baltini Roversi

Il titolo dell’editoriale è mutuato dal romanzo di Ugo Riccarelli, vincitore la scorsa settimana del celeberrimo premio Strega. Lo prendiamo come riferimento perché partiamo da un tema che ci ha particolarmente coinvolto e attratto.

Il protagonista è un giovane maestro del Sud che da Sapri, in Campania, giunge fino in Toscana, a Colle, per prendere possesso di una cattedra disponibile.
Appena diplomato sceglie un luogo lontano perché intende fuggire da una civiltà contadina che reputa arcaica e immobile.
Fugge con idee rivoluzionarie e con l’intento di cambiare in positivo le sorti del mondo.
Non accetta che vi siano degli oppressi. Non accetta le ingiustizie.
E’ intimamente pervaso dalla fede nell’utopia.
Certe letture lo hanno nutrito e fortificato nelle proprie convinzioni. Ha un animo anarchico. Non accetta che alcuni possano predominare su altri.

E’ in “fuga” verso una meta in grado di appagarlo. Considera una “missione” l’andare lontano dalla sua terra alla volta di un mondo nuovo. Avverte forte in sé la necessità di tale viaggio, pur con qualche amarezza. Durante il percorso rievoca con qualche punta di nostalgia gli anni trascorsi a studiare, le interminabili discussioni con i compagni di scuola.

Pensare, aprire il proprio cervello al pensiero, coinvolgere in questo suo pensare anche la società.
Il padre è aiuto fattore alle dipendenze di un Barone. Lo ha fatto studiare “perché non conoscesse la fatica del sudore mal pagato di chi coltiva la terra”.
Il giovane nei libri vede però qualcosa d’altro.

“Furono – come scrive Riccarelli – mesi di letture feroci, continue ed estenuanti, tanto che suo padre nel vederlo sempre chino sulle pagine, assorto nei pensieri, cominciò a dubitare della sua intelligenza. E che sarà mai questa scienza, pensava, possibile che sia così complicata e lunga da consumarti gli occhi e il sonno?”.

Quando giunge il fatidico momento e il giovane consegue il titolo di maestro, il padre lo invita a festeggiare. Il figlio replica senza tentennamenti: “Non sono maestro di niente, padre, e festeggerò soltanto quando i cafoni che stanno urlando giù di sotto come scemi urleranno contro i Baroni e si faranno dare la terra che lavorano, e che non è di nessuno se non di chi seppellisce dentro il cuore a colpi di zappa”.
Parole chiare, esplicite, ma il padre non ne comprende il senso. Forse è l’ebbrezza del vino, l’effetto stravolgente della festa. Percepisce tuttavia l’allontanamento del figlio. Per sempre. Nonostante i tanti sacrifici per farlo studiare.

Giunto a Colle, il giovane maestro osserva con attenzione la gente del luogo intenta a lavorare al cantiere della ferrovia. Così scrive Riccarelli: “vedeva enormi costruzioni brulicanti di uomini schiavi di un lavoro il cui frutto non era loro, nascosti dal buio, sepolti dai fumi, assordati dal rumore, immersi nella produzione di un comune destino di fatica che gli parve un dolore enorme e perfetto”.

Non proseguiamo oltre, sarebbe consigliabile la lettura del libro, la storia è toccante, carica di forti emozioni. Prendiamo però spunto dal romanzo solo per una breve riflessione. Quanto dolore si è consumato nel mondo rurale, quanta sofferenza e quante fatiche immani. Forse inutili. La domanda è una sola, spontanea: è servito a qualcosa tutto ciò?

La risposta la lascio ai lettori. All’inizio del romanzo si narra del cugino del maestro. Era partito volontario con Pisacane, animato da nobili ideali. Venne barbaramente ucciso. Con una fucilata alle spalle. Secca, inferta senza pietà alcuna. Il colpo mortale partì dall’arma di un contadino. Anche questo dolore ha conservato intimamente nel cuore il maestro. Un dolore perfetto, senza sbavature. Lo sfortunato cugino era partito per liberare i contadini dall’oppressione a cui erano sottoposti.Venne però ammazzato proprio da uno di loro. Non c’è motivo di stupirsi.

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