Editoriali

Il taglio degli olivi altrui: atto intimidatorio e segno di rottura del legame esistente fra l’uomo e la terra

Il taglio degli olivi altrui: atto intimidatorio e segno di rottura del legame esistente fra l’uomo e la terra

Il danneggiamento degli olivi non è solo un atto vandalico: è una forma di linguaggio criminale, un messaggio preciso e codificato, che attraversa i secoli e i confini. Colpire un ulivo è come colpire la dignità di chi lo ha piantato, curato e amato

24 ottobre 2025 | 14:30 | Mario Liberto, Pippo Oddo

Uno degli atti intimidatori più ricorrenti nelle regioni del Sud Italia, inclusa la Sicilia, è il taglio degli alberi di ulivo. Un gesto apparentemente becero ma banale, in realtà profondamente simbolico, che si ripete periodicamente e viene spesso riportato da diverse testate giornalistiche locali e nazionali. Dietro questi atti vandalici si nasconde una chiara intenzione: colpire, umiliare e intimidire chi, per un motivo o per l’altro, è finito nel mirino della criminalità organizzata. Nessuno è escluso: amministratori pubblici, sindacalisti, imprenditori, agricoltori. Chiunque, al di là della legittimità o meno di un torto presunto, può diventare bersaglio. E l’ulivo, in questi casi, diventa la vittima sacrificale. Ad onore del vero, almeno in Sicilia (culla della mafia), si sono registrati, con altrettanta frequenza se non maggiore, altri sfregi: il taglio della vigna e l’incendio dei campi di cereali e dei locali destinati alla conservazione del fieno, della legna da ardere e della paglia. 

Date le circostanze, ci limitiamo, però, a prendere in considerazione solo il caso dell’ulivo, che con il grano e la vite costituiscono la «triade mediterranea» tanto cara a Fernand Braudel perché ha assicurato il grosso degli equilibro vitale agli umani insediati ai margini del Mare Nostrum. Non si tratta di un fenomeno recente. La distruzione degli ulivi ha una lunga storia e spesso assume contorni clamorosi. Questo gesto non colpisce solo l’aspetto economico — privando il proprietario del frutto del proprio lavoro e di una fonte di reddito importante — ma affonda anche nelle radici più profonde della cultura mediterranea. L’ulivo non è solo una pianta: è il simbolo del radicamento, dell’appartenenza, del legame tra l’uomo e la terra. La pianta e il liquido estratto dalle sue drupe hanno goduto sempre di una sacralità indiscussa da parte di tutti i popoli mediterranei.

Si tramanda che fu Aristeo, figlio del dio Apollo e di Cirene, a diffondere l'ulivo in tutto il bacino del Mediterraneo. Peccato che gli Ebrei non ci credano. La loro tradizione vuole che quando morì Abramo gli trovarono fra le labbra tre semi, dai quali poi nacquero il cedro, il cipresso e l'ulivo. L'albero «dalle foglie glauche» sarebbe quindi nato nella terra di Canaan, per i figli d'Israele. Il popolo eletto è stato definito da Geremia: «ulivo verde, maestoso»; e non è un semplice dettaglio narrativo il fatto che ad annunziare a Noè la fine del diluvio universale sia stata una colomba «con una fronda novella d’olivo sul becco»; come non è priva di significato la circostanza che la croce di Cristo, il simbolo più alto della cristianità, sia stata costruita in legno di cedro e d’ulivo. La sacralità della pianta sempreverde non viene meno neppure con l'avvento dell'Islam. 

Un versetto coranico (24, 35) recita: «Il Dio! Egli è la luce in cielo e in terra, e la sua luce è come quella di lampada collocata in nicchia: la lampada si trova serrata in cristallo come astro di splendore immane, accesa rimane grazie all'olio di pianta benedetta, questa pianta è l'ulivo (non si trova né a oriente né a occidente). L'olio farebbe risplendere la luce anche se non lo toccasse il fuoco, mai». E ancora ai nostri giorni in tutta la vasta regione dei territori islamici l’ulivo è un albero sacro, benedetto nel Corano (shajara mubarakah). È simbolo di resistenza, di pace, di resilienza. Circa il 45% dei terreni agricoli della Cisgiordania è occupato da oltre 10 milioni di ulivi, che producono circa 35.000 tonnellate di olio ogni anno. Colpire questi alberi significa dunque aggredire l’anima stessa di una comunità.

Fatto sta che la giornalista Lorenza Rapini, in un articolo pubblicato sulla Stampa, denuncia la sistematica distruzione degli ulivi in Palestina da parte di coloni israeliani. Migliaia di alberi sono stati abbattuti, sradicati o avvelenati nella Cisgiordania. Si tratta di episodi ripetuti, spesso ignorati o sottovalutati, che però si inseriscono in una strategia di lungo periodo volta a impoverire i palestinesi, a toglier loro non solo le fonti di sostentamento, ma anche l’identità culturale e religiosa. L’8 ottobre 2025, centinaia di ulivi sono stati sradicati nel villaggio palestinese di Al-Mughayyir, a sud di Betlemme. Solo poche settimane prima, bulldozer israeliani avevano raso al suolo oltre 3.000 ulivi in un’area a nord-est di Ramallah. Si tratta di una vera e propria guerra ai simboli, condotta attraverso l’attacco a una pianta millenaria che ha sempre rappresentato la vita, la pace e l’identità. La stessa cosa successe in Sicilia nei primi anni ’50 del secolo scorso, quando i latifondisti, espropriati (ai sensi della legge regionale di riforma agraria) di terre con colture arboree, prima di cederle ai legittimi assegnatari le fecero ripulire dalla mafia delle poche piante arboree esistenti. E gli ulivi non ebbero affatto un occhio di riguardo, quand’anche si trattasse di piante con diversi secoli di vita sul groppone ed erano conosciuti come «ulivi saraceni».

Questo parallelismo tra contesti così distanti geograficamente — la Sicilia, ma anche tutto il Meridione d’Italia, e la Palestina — mostra quanto l’ulivo non sia solo un elemento del paesaggio, ma un vero e proprio totem culturale e spirituale. Tagliarlo è un atto violento, criminale, di una criminalità quasi identica alla eliminazione fisica degli uomini che hanno avuto cura, i quali dalla pianta sempreverde hanno tratto gran parte dei mezzi di sostentamento. Abbatterlo toglie linfa alla memoria collettiva e colpisce il cuore stesso della relazione intima e – perché no? – il rapporto spirituale tra l’uomo e il territorio, il suo spazio vitale. Nel mondo rurale mediterraneo, l’ulivo è sempre stato considerato un segno tangibile di insediamento e di appartenenza, di relazioni sociali. 

Miracoli della pianta sacra a Minerva, capace di conciliare l'inconciliabile: il monoteismo e il politeismo, Jahvè e Zeus, Cristo e Maometto, l'ebraismo, il cristianesimo e l'islamismo! Sull'olio d'oliva è fiorita una profusione di miti e leggende, in ogni angolo del Mediterraneo. Non si possono contare i riti che, a prescindere dalla facciata, accomunano popoli assai diversi per lingua e religione, storia e concezione della vita. Se nel racconto omerico Achille fa ungere d’olio il cadavere di Ettore, prima di restituirlo a Priamo, nel Vecchio Testamento Saul, da umile pastore di greggi, diviene re dopo che Samuele prende «un vasetto d'olio» e glielo versa sul capo. Commentando i riti funebri cristiani, lo pseudo Dionigi ricorda che «dopo il saluto, il sacerdote spande olio sul defunto». Aggiunge: «Nel sacramento di rigenerazione prima del battesimo, quando l'iniziato si è totalmente spogliato delle vecchie vesti, la prima partecipazione alle cose sacre consiste nell'unzione di olio benedetto. E al termine della vita è ancora l'olio santo che si sparge sul defunto. Per l'unzione del battesimo si chiama l'iniziato all'agone dei combattimenti sacri; l'olio versato sul defunto significa che egli ha compiuto la sua missione terrena e messo fine alle lotte gloriose». 

Nell'Africa del Nord, ma anche in altre regioni mediterranee, i contadini usano oliare il vomere, prima di affondarlo nel suolo, quasi a volersi ingraziare la Madre Terra cui è affidata, in definitiva, la sopravvivenza della specie umana. Cristo stesso, il figlio di Dio fatto uomo, fu unto d'olio d'oliva, prima di iniziare la sua missione salvifica sulla terra. Non si dimentichi che kristós, in greco, significa unto (dal Signore). Consumare il prezioso liquido estratto dalla drupa olearia non vuol dire, dunque, solo praticare una dieta salubre: vuol dire anche, per noi mediterranei, accostarci ai sapori della tradizione, riscoprendo le nostre più profonde radici culturali, e non senza rendere omaggio alle generazioni passate che, grazie alla coltivazione dell'ulivo e all’estrazione dell'olio, non hanno avuto bisogno di far strage di bestiame per insaporire le pietanze.

In Sicilia la storia dell’ulivo ha avuto un andamento tortuoso dopo la cacciata degli Arabi. Ma non è questa la sede per approfondire l’argomento. Ci limitiamo a ricordare che tutto cominciò con il decreto del Gran Conte Ruggero d’Altavilla, che si dichiarò padrone di tutte le terre di Sicilia e, subito dopo, introdusse il feudalesimo, cui si deve la fine dell’insediamento sparso, l’accentramento nei grossi centri compatti e la rarefazione delle colture arboree, prima delle quali l’ulivo.

Le cose cominciarono a cambiare di segno nei secoli successivi, quando il viceré spagnolo prese a concedere le varie licentiae populandi per fondare nuovi insediamenti nei territori spopolati del Regno di Sicilia, al fine di incrementare la produzione del grano che veniva esportata in tutto il mondo. Da quel momento i signori feudali, per attirare la manodopera necessaria per mettere a coltura cerealicola le terre da tempo incolte o sfruttate a pascolo, cominciarono a concedere in enfiteusi piccoli appezzamenti e, spesso ma non sempre, anche la casa di abitazione nei centri. In diversi casi i feudatari concedevano in enfiteusi non l’abitazione ma solo l’area edificabile. Ad ogni modo nel terreno ottenuto in enfiteusi, l’assegnatario ne ritagliava una parte per impiantare la vigna, perché – come dice il vecchio adagio – cu’ avi vigna, avi, pani vinu e ligna. Ma la vigna, si sa, ha una durata limitata. Tanto valeva impiantare tra i filari l’ulivo, destinato a sopravvivere alla vigna. Chi stentava a sopravvivere era il contadino, che per debiti veniva spesso dichiarato «povero e miserabile», costretto a vendere («per non subir carcerazione») l’ultimo pezzetto di vigna.

Laddove nasceva il grande uliveto (magari perché un feudatario come il marchese di Geraci aveva avuto la lungimiranza di fare innestare l’ulivo sugli oleastri) prendevano corpo altri fenomeni iniqui. È il caso della vasta area tra le Madonie e i Nebrodi occidentali dove, il contadino autore della miglioria restava padrone, secondo i patti, o della pianta o del terreno, che adibiva a seminativo asciutto. A Sciara fino al 1952 il principe Notarbartolo concedeva ai contadini solo la terra in cui verdeggiavano gli ulivi, ma soltanto se raccomandati dalla mafia. E la parziale modifica di questa situazione fu una dell’olocausto del sindacalista Salvatore Carnevale. Le olive venivano venduti sulla pianta a commercianti e ai contadini veniva impedito l’accesso al fondo nel periodo della raccolta. I primi principi di Sciara, bontà loro, avevano concesso ai contadini l’uso civico di estrarre l’olio puzzolente dallo stincu, arbusto autoctono, il famoso lentisco (Pistacea lentiscus), che cresce spontaneo sul monte San Calogero. E per eccesso di generosità, il principe nominò il parroco del paese «ministro delle ganguzze», perché amministrava la scorta di cicerchie (dette in siciliano ganguzzi) e altri legumi che venivano somministrati eccezionalmente ai poveri le rare volte che il feudatario soggiornava a Sciara, magari per una battuta di caccia. 

Ad ogni buon conto, piantare o innestare l’olivo era ovunque e in ogni epoca un modo per sancire un patto tra l’uomo e la terra, tra chi abitava quei luoghi e la loro storia. Era un segno di pace, ma anche un atto di legittimazione sociale e territoriale. Per questo motivo, l’ulivo, che nella Bibbia è l’albero del patto tra Dio e gli uomini, e che in tutte le religioni mediterranee simboleggia la pace, diventa — se abbattuto — l’esatto contrario: il segno della rottura, della violenza, dell’esclusione.

In conclusione, il danneggiamento degli ulivi non è solo un atto vandalico: è una forma di linguaggio criminale, un messaggio preciso e codificato, che attraversa i secoli e i confini. Colpire un ulivo è come colpire la dignità di chi lo ha piantato, curato e amato. È l’antitesi della pace, della memoria e dell’appartenenza. Fermiamo la mano ai prepotenti. Salviamo il paesaggio agrario palestinese, bene comune e patrimonio dell’umanità, come la pace e la giustizia sociale. 

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