Editoriali

Un no che viene dal cuore agli oliveti superintensivi

Un no che viene dal cuore agli oliveti superintensivi

No allo spreco di suolo per oliveti superintensivi, con l’attacco alla biodiversità, al declino della popolazione di uccelli, l’uso e abuso di acqua e di prodotti chimici, la necessità di possenti macchine

28 aprile 2023 | Pasquale Di Lena

Se vi capita, cari lettori, di andare a trovare, con l’aiuto di Google, cosa s’intende per oliveti superintensivi e quali sono i pro e i contro di una forma di allevamento - nata qualche decennio fa in Spagna con l’adattamento di due o tre delle più note varietà diffuse nella penisola iberica – troverete, fatta salva qualche eccezione, solo note di esaltazione dell’oliveto superintensivo, soprattutto per la sua predisposizione ad accorciare i tempi di produzione e a dare una quantità di produzione  superiore all’oliveto allevato nelle forme tradizionali. Una trasformazione radicale di una coltura, dopo seimila anni dalla sua espansione, in compagnia con la viticoltura, dalla terra della mezzaluna fertile alla conquista dei territori bagnati da quel mare stupendo che è il “mare nostrum”, il Mediterraneo. Un percorso lento, accelerato dai romani del grande impero, che ha portato tutti i popoli coinvolti nel tempo, a considerare l’olivo, la “pianta sacra” per eccellenza e tutto grazie al suo olio, ottenuto dalla spremuta delle sue olive, sempre più considerato, con il passar del tempo, una panacea contro ogni male. E, con il passare di alcuni millenni, l’alimento filo conduttore di uno stile di vita che un fisiologo americano, Ancel Keys, ha dichiarato, nella seconda metà del secolo scorso, nella Campania felix, Dieta Mediterranea. Da qualche anno riconosciuta patrimonio culturale dell’Umanità che il mondo, non a caso, ha posto sul gradino più alto e considera la più importante, non tanto  perché la più varia, ma soprattutto, perché la più salutare. La fama dell’olivo e della stessa vite portano l’olio e il vino a diventare simboli, come nel caso della messa, il rito centrale della cristianità. Millenni di storia caratterizzati dal rispetto dell’uomo per la natura e, da parte dell’uomo coltivatore, per la terra.  E, non solo, anche per il tempo contrassegnato dalle stagioni e dalla continuità, da esse espresse, del passato con il presente e di questo con il futuro. Una continuità segnata da valori, prima fra tutti il rispetto, elemento di armonia e di pace, che il neoliberismo, con la sua mania di distruzione e depredazione della natura e dei valori per dare spazio alla quantità a scapito della qualità, ha cancellato. L’esempio del rispetto e dell’amore per la terra lo si trova nella pratica millenaria del “maggese”, ovvero del riposo del terreno, necessario, con l’aiuto di alcune lavorazioni, per rigenerare la fertilità. Sono certo che la scienza, che ha portato allo sfruttamento del terreno aveva ben chiaro, eliminando la pratica del maggese e mettendo in campo la chimica e la possibilità, a dispetto delle stagioni, di più colture nell’anno, ha ben considerato l’attacco alla vita espressa dalla fertilità del terreno. Una volta, però, messa nelle mani della finanza  (banche e multinazionali) diventa il grande affare di un sistema, il neoliberismo, che, come si sa, pensa solo a come consumare per fare denaro. A tal punto da trasformarlo da mezzo a fine e venerarlo come un nuovo dio. Non solo furto di terreno destinato all’agricoltura, ma, anche, con il diffondersi dell’agricoltura industriale, un suo costante impoverimento. È la FAO a denunciare (2018) il fallimento dell’agricoltura industriale, la sua opera distruttiva della fertilità e, così, del cibo. L’agricoltura, non a caso, la più sostenuta finanziariamente dall’Unione europea, e, con essa, gli allevamenti superintensivi, che, insieme, rappresentano la seconda voce, dopo i fossili, della sempre più grave situazione che sta vivendo il clima.

Gli oliveti superintensivi – lo conferma la promozione delle aziende vivaistiche e dei venditori di concimi e antiparassitari, che si trova su Google – è un’espressione alta dell’agricoltura industrializzata, cioè della pratica che depreda e distrugge il suolo, al pari degli enormi pali eolici e dei pannelli solari a terra. Non a caso si parla sempre più, se vogliamo il cibo vero, di agricoltura rigenerativa che torna a collegare il presente al passato per dare, con la continuità, un domani capace di nutrire di bellezza, di convivialità, di valori e di risorse le nuove generazioni. A partire dall’”ultima” che ha perso ogni speranza di fronte alle scelte o non scelte dei padroni del mondo e dei governi che, a vari livelli, seguono i loro ordini. Mentre scrivo sto pensando a un incontro di poco fa, molto affollato, dell’attuale nostro capo di governo con gli imprenditori, per parlare della ricostruzione dell’Ucraina. Un incontro che spiega bene la mente diabolica di un sistema basato sul consumo di ogni cosa, risorse e valori, e tutto da trasformare in denaro. In pratica, prima si inviano le armi per ammazzare ed essere ammazzati e, insieme, per distruggere un territorio ricco di storia e di cultura, di antiche tradizioni, e poi il grande affare legato alla ricostruzione. Si capisce bene il silenzio sulla pace, neanche una parola, e subito il ricatto delle sanzioni e l’invio delle armi, come a dimostrare che si aspettava solo la dichiarazione di guerra da parte di un rappresentante di oligarchi, non diverso da chi utilizza il potere.

È dentro questo ragionamento, prim’ancora che di ordine tecnico, il mio no allo spreco di suolo per un’agricoltura industrializzata, che l’oliveto superintensivo rappresenta magnificamente, con l’attacco alla biodiversità (un patrimonio enorme quella dell’olivicoltura italiana e, oggi, più che mai strategica per il mercato); al declino della popolazione di uccelli (una notizia che arriva dalla patria dell’oliveto superintensivo, la Spagna); l’uso e abuso di acqua e di prodotti chimici; la necessità di possenti macchine che solo grandi estensioni possono ammortizzare. In pratica un furto, nel tempo, proprio di agricoltura, quella che assicura il cibo del domani e che, rimessa al centro quale perno di uno “sviluppo”, dà a questa parola il suo vero significato, se legato a quello altrettanto importante,  “progresso”, cioè speranza, benessere, uguaglianza, convivialità, crescita e non disperazione per colpa di guerre, depredazioni, distruzioni, disuguaglianze. Basterebbe un po’ più di attenzione per il domani dei propri figli e nipoti per sentire l’urlo straziante della terra che, a metà anno non ha più niente da dare, e del clima che, ogni giorno, ci dà segnali non belli, sempre più preoccupanti. So bene che non è facile nel tempo in cui il denaro è padrone assoluto e onnipresente.

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Vito Alicino

29 aprile 2023 ore 18:09

Quando si parla di oliveto superintensivo il riferimento è prontamente riferito alla nazione Spagna. A mia conoscenza risulta invece importante e qualificata la collaborazione con agronomi italiani che hanno già espresso nuove cultivar valide con interessanti espressioni di sapore e polifenoli per esprimere olii nutraceutici.
La componente idrica e di concimazione non risulta nei piani di programma superiore a quelli degli oliveti tradizionali.
Pertanto ben vengano questi impianti che producono olio salutare.
Per concludere buon olio a tutti

Alessandro Vujovic

01 maggio 2023 ore 03:09

Il sistema superintensivo richiede più risorse e spese di gestione, rispetto ai tradizionali, per una maggiore irrigazione, una maggiore concimazione ed un maggior numero di trattamenti fitosanitari che sono compensati da una riduzione significativa dei costi di potatura e di raccolta. Un problema importante sono le dimensioni (e la frammentazione) dei frantoi capaci di lavorare "in poco tempo" le oltre 8 tonnellate ora raccolte per ettaro. Le olive raccolte con questi mezzi meccanici vanno lavorate "subito". Inoltre tutte le parti in movimento dei mezzi meccanici, che possono avere contatti con l'oliva, vanno lubrificati con grasso alimentare per i rischi di MOAH e MOSH. E poi, visto che sono poche le cultivar che si prestano per questo tipo di allevamento, la tipicità delle nostre cultivar è ritenuta, da tutti, un valore che caratterizza l'Italia. Purtroppo produciamo meno di un quinto del fabbisogno per il consumo interno e l’olio italiano non è sufficiente e il ricorso ad oli dell’Unione Europea non è un capriccio ma una necessità. Oggi in Spagna il 10% degli uliveti sono superintensivi ed il 20-30% è intensivo e il resto tradizionale. Ma là i superintensivi non stanno aumentando anzi, ci sono abbandoni. quindi potrebbe essere maggiormente interessante una forma intermedia di allevamento.

Alessandro Vujovic

29 aprile 2023 ore 15:08

Io non demonizzerei la cultura dell'olivo nella forma superintensiva, pur conoscendo tutte le sue problematiche non per ultimo, quelle legate al cambiamento climatico (siccità e malattie emergenti), in quanto vicino alla "qualità" (la migliore tecnologicamente possibile che oggi abbiamo raggiunto, nella storia dell'olio) dovremmo fare anche la "quantità" altrimenti continueremo ad importare olio dall'estero. E poi l'olio consumato nel mondo rappresenta oggi solamente il 2% dei grassi alimentari,; non crede che sia giusto che anche altre popolazioni possano accedere a questo "alimento funzionale"? E inoltre gli oliveti in Italia sono scesi, per la prima volta, sotto il milione di ettari, 994.318 contro 1.123.330 di dieci anni prima. Lo evidenzia il 7° Censimento dell’Agricoltura di cui l’Istat ha diffuso i primi dati che segnano una generale riduzione di aziende agricole (scese da 1,6 milioni nel 2010 a 1,1 milione nel 2020) con un calo di oltre l’11%. Questo perché l'olivicoltura è diventata non economicamente vantaggiosa, i costi di produzione dell'olio in Italia sono i più alti nel mondo. Finché non arriverà una tecnologia capace di farci recuperare i costi, con i sottoprodotti (in particolare le molecole bioattive delle acque di vegetazione) tanti operatori abbandoneranno questo lavoro, tra l'altro pieno di rischi (biotici e abiotici). imprenditoriali

Francesco di Sessa

29 aprile 2023 ore 09:05

Buondì Sig. Pasquale
Ho letto con grande attenzione il Suo articolo. E, confesso, con grande empatia rispetto ad un problema ampiamente sottovalutato in primis dalla classe politica-dirigente mondiale: probabilmente volutamente, dati gli enormi interessi economici " a breve termine" in gioco. Già, a breve termine, perchè nel medio -lungo periodo le scorciatoie intraprese dall'uomo per produrre di più e più velocemente verranno purtroppo a galla, con conseguenze catastrofiche di cui già cogliamo le prime avvisaglie. A mio parere manca una attenta educazione al rispetto vero della natura, del cibo e da chi e come lo si dovrebbe creare.. Cultura che dovrebbe essere divulgata ed inculcata già nei primi anni di scuola, con grande attenzione e perseveranza. Ho 4 figli, in età ormai adolescenziale. Quando parlo di questi temi, mi guardano spesso con occhi divertiti di chi commisera un pazzo visionario.. Però a forza di ripeterlo noto che non lasciano più rubinetti dell'acqua scorrere liberamente, si preoccupano di non sprecare cibo a tavola, di non gettare mai un pezzo di plastica o altro nell'ambiente, hanno imparato a stare alla larga dai cibi industriali di bassa qualità e a ricercare ed apprezzare i grandi prodotti alimentari di nicchia, di cui l'Italia è in prima fila.. Per me, da genitore, un piccolo grande traguardo.. Ognuno, nl "proprio orticello" dovrebbe fare la propria parte..
Grazie per il Suo impegno.
Francesco di Sessa (francesco.disessa67@gmail.com)

Francesco Silvestri

29 aprile 2023 ore 08:52

Condivido totalmente l'articolo. Andrebbe condiviso.