Editoriali

DAL CONVENZIONALE AL BIO, E RITORNO

23 giugno 2007 | Stefano Tesi

Molte delle mie riflessioni nascono dalla fortuna (?) di avere un doppio osservatorio sulle cose rurali: quello del giornalista e quello dell’agricoltore. Posizione, quest’ultima, indispensabile per avere un’idea concreta di come vadano le cose nel mondo reale.

Allora succede questo. Dopo due decenni di giusta campagna contro l’eccesso di uso di pesticidi e concimi chimici, molti imprenditori agricoli della collina interna (quelli sui quali, secondo me, va calibrato qualsiasi ragionamento riferito a un’agricoltura “vera”, cioè normale, tradizionale, né eccessivamente redditizia né troppo capitalizzata) a suo tempo abbracciarono il Reg. Cee 2078. Indotti, va detto, più dai ricchi contributi e dalla parallela discesa dei prezzi delle derrate che non da una vera convinzione di fondo, ma tant’è.

Il Reg. 2078 e l’insieme congiunturale che lo accompagnava, ivi inclusa la tendenziale riduzione delle attrezzature aziendali e più in generale di un’organizzazione interna dell’impresa orientata alla produzione di massa, rappresentavano a loro volta l’anticamera per il passaggio al biologico. Una strada che la stragrande maggioranza degli agricoltori di cui sopra, al termine del quinquennio della 2078, scelse, spinta certamente più dalla necessità di continuare a percepire i contributi (e continuare l’invitante fase di “dimagrimento” aziendale prima accennato) che non dalla sincera adesione alla filosofia bio.

Accade però che anche il quinquennio “biologico” finisca. E gli agricoltori si trovino a un bivio. Cioè o prendere atto che il periodo è finito (e di conseguenza lo sono i contributi) e quindi tornare al metodo convenzionale, oppure tentare la sorte e fare domanda di iscrizione agli elenchi dei beneficiari della Misura 6 nel nuovo PSR, elenchi che però verranno fatti tra qualche mese (quindi con semine eseguite oltretutto “alla cieca”, senza sapere se si beneficerà del premio) e dai quali si potrebbe benissimo essere messi in graduatoria in una posizione “non finanziabile”.

Insomma, un paradosso.
Da un lato, io agricoltore medio - senza grilli per la testa, senza sogni di gloria nel cassetto, sospinto solo dal desiderio di tenere in piedi l’azienda con la quale sostento la famiglia e che rappresenta il mio lavoro – sono quasi costretto dalle circostanze a tornare a fare agricoltura convenzionale, buttando a mare almeno un decennio di agricoltura “virtuosa” e di progressiva riduzione, fino all’azzeramento, dell’uso di concimi chimici e pesticidi nei miei terreni.

Da un altro, devo di conseguenza riattrezzarmi e riorganizzarmi, dopo anni di faticosa “dieta”, più vecchio di dieci anni, gravandomi di un indebitamento tutt’altro che ragionevole (e sempre ammesso che me lo concedano).

Oppure - terza via - rassegnarmi, come predicano certi soloni facendo finta che tutti i terreni e tutte le aziende siano uguali, a continuare a fare biologico senza contributi, il che equivale nell’80% dei casi a lavorare in perdita e quindi a chiudere nell’arco di un biennio, con le conseguenze che ne derivano.

O forse sono un ingenuo ed erano proprio questi gli obbiettivi di medio termine che si perseguivano?
I massimi sistemi non so, ma il buon senso attende ancora una risposta.

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