Editoriali
Cosa significa davvero pensare all'olivo e al suo futuro

Pensare all’olivo e al suo futuro, vuol dire pensare all’oggi e al domani del territorio italiano che apre alla speranza e al futuro, e, diventa l’eredità che dobbiamo alle nuove generazioni
24 settembre 2021 | Pasquale Di Lena
Pensare all’olivo ed al suo futuro vuol dire pensare:
all’oggi e al domani della nostra agricoltura;
alle tradizioni legate all’olio e alla bontà di un piatto della Dieta più salutare, quella Mediterranea, e sentire il piacere della tavola, l’importanza, oggi, del convivio;
alla salute ed al benessere e le tante virtù dell’olio evo
al clima (l’olivo e la sua possente capacità di captare CO2);
ai luoghi, i suoi paesaggi agrari con al centro i paesi fatti di strette viuzze e minute piazze, i campanili che sovrastano le torri, i castelli e gli antichi palazzi; i cieli alti segnati da sottili orizzonti, emozionanti albe, stupendi tramonti;
ai mari poco lontani dagli olivi, che hanno bisogno di territori interni caratterizzati da ambienti sani, puliti, e oli delicati, quelli che meglio si sposano con la cucina da essi messi a disposizione;
alle aree interne sempre più deserte ed agli olivi abbandonati:
all’ambiente segnato da frane e dissesto idrogeologico;
al vissuto di questi luoghi, territori, che il tipo di sviluppo degli ultimi decenni ha segnato con l’abbandono delle attività, lo spopolamento;
alla bellezza del paesaggio olivicolo, che viene sempre più messo in discussione dagli impianti di energia alternativa a quella derivante dai fossili, l’eolico e il solare. Parchi eolici con pali alti oltre 170 metri e, ultimamente, pannelli solari a terra, che sono un furto di agricoltura e, come tale, di cibo, la vera e sola energia vitale, primaria necessità per gli uomini e gli animali;
alla storia e alla cultura, entrambe segnate, in Italia e nel Mediterraneo, al pari delle tradizioni, dall’olivo e dalla sua compagna fedele, la vite;
all’economia, al tipo di sviluppo, al lavoro e all’occupazione sempre più virtuale;
alla fertilità del suolo che un’agricoltura industrializzata ha messo in discussione, e continua a farlo, grazie ai sussidi che arrivano da Bruxelles, che, in parte vanno alle multinazionali e, in parte – solo passando dalle mani del coltivatore - alle banche. Un tipo di agricoltura che ha portato alla diffusione, a partire dalla Spagna, degli oliveti superintensivi, impostati su tre varietà, tutte spagnole, che sono a rappresentare il duro attacco alla biodiversità, in pratica all’olivicoltura italiana che, con le sue 550 e più varietà di olivo autoctone ha un patrimonio immenso, inarrivabile, ancora tutto da sfruttare. Un’olivicoltura industrializzata che ha bisogno di grandi macchine, tanta acqua, forti quantità di concimi ed antiparassitari. Un’olivicoltura che guarda a un unico e solo obiettivo, la quantità. Un olivicoltura che nei 20 anni della vita del suo oliveto, distrugge la gran parte della fertilità del suolo. In sintesi, un’olivicoltura che, al pari del sistema, il neoliberismo predatorio e distruttivo, pensa all’oggi ed esclude il domani, e, ciò che è peggio, non sa cos’è il limite, il finito.
Pensare all’olivo e al suo futuro, vuol dire pensare all’oggi e al domani del territorio italiano, il bene comune, il tesoro, la base di una programmazione, che il tipo di sviluppo ha trasformato,, secondo dopo secondo, in cemento ed asfalto e tutto a spese della superficie agricola, ridotta a 12,8 milioni di ettari, con una perdita costante di cibo. Quel cibo di cui, in questi ultimi tempi, tutti si vantano per l’immagine che vive nel mondo, grazie alla qualità e alla diversità espressa dai mille e mille territori che rendono l’Italia, un Paese unico al mondo, che ha tutto quello che serve per essere riconosciuto come il grande “Patrimonio materiale e culturale dell’umanità”.
Recuperare gli oliveti abbandonati e impiantare 800mila ettari di nuovi oliveti, intensivi e non super intensivi come il “Bosco della Monini”, grande mille ettari, diventa sempre più un’urgenza per questo nostro Paese. Vuol dire dare una risposta alla domanda interna (siamo il Paese che consuma più olio di ogni altro al mondo) e, ancor più, alla domanda che arriva dal mercato globale in costante aumento, soprattutto per l’olio di qualità, e, prossimamente, per gli oli monovarietali a significare l’importanza del primato del patrimonio di biodiversità olivicola che l’Italia ha. Si tratta di ripercorre l’esperienza avviata dal vino italiano nella seconda metà degli anni ’80, quando i vini bianchi o rossi, rosati o cerasuoli, si trasformano in vini Docg, Doc e Igt (Dop e Igp), testimoni di tanti territori, luoghi, e vanno alla conquista del mercato globale con un proprio nome e una propria identità di caratteri, apprezzata dal consumatore. I luoghi (David) che sfidano il mercato globale (Golia) e vincono, grazie a quella ricchezza unica che è la biodiversità.
Ecco, per me, pensare all’olivo e al suo futuro vuol dire dare spazio e forza ai luoghi e a quel diverso tipo di sviluppo, biosostenibile, che apre alla speranza e al futuro, e, diventa l’eredità che dobbiamo alle nuove generazioni.
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