Editoriali
Non bisogna avere paura del Ceta ma della nostra ignoranza
Se si compra grano, olio, latte estero, in funzione di parametri standardizzati e funzionali all'industria, la colpa non è dei trattati di libero scambio ma dell'ignoranza dei consumatori. Il re è nudo
19 settembre 2019 | Roberto Rubino
La neo ministra dell’Agricoltura Bellanova, fra i primi argomenti, ha messo sul tavolo della discussione il Ceta, l’accordo di libero scambio fra Europa e Canada. Sul web i tifosi di una parte e dell’altra sono subito entrati in campo. Le ragioni di entrambi sono sempre difficili da decifrare, perché in genere su questi argomenti si interviene più per motivi che riportano al proprio schieramento politico che a una conoscenza profonda della questione. Provo a dire la mia sull’argomento. Il timore che molti paventano è che il Made in Italy sia a rischio. Non capisco perché. Siamo un paese che vive di esportazioni, la gran parte dei nostri prodotti agricoli vanno in Canada, dove sono apprezzati. Perché il libero scambio ci danneggia? Perché arriva il grano dal Canada penalizzando le nostre produzioni cerealicole. Ma noi siamo il paese della pasta. Produciamo poco più del 60% del fabbisogno, quindi abbiamo bisogno del grano estero. Quello del Canada viene preferito dai nostri mugnai perché costa meno? Affatto, costa di più. Ma, dicono i difensori del Made in Italy, il grano canadese è trattato con il glifosate nella fase finale per favorirne la maturazione. E allora perché i nostri pastai preferiscono questa tipologia di grano? Perché ha un alto contenuto di proteina e, quindi, perché l’industria, e non solo, ha deciso che il parametro di riferimento per misurarne il livello qualitativo è la proteina. Quindi, se noi abbiamo bisogno di grano estero, se l’industria ha scelto la proteina come parametro per pagare il grano, perché mai dobbiamo contestare l’importazione di questo grano? Naturalmente altra cosa è se è ricco di glifosate, ma per questo ci sono le leggi e se non funzionano si migliorano. Dicono anche che all’estero e anche in Canada imitano sfrontatamente i nostri prodotti. Vorrà dire che sono molto apprezzati. Ma ci sottraggono quote di mercato. E chi l’ha detto?
Ma proprio oggi leggo sul web che in Italia sono stati esclusi dalla certificazione 2 milioni di prosciutti San Daniele e Parma. Potremmo approfittare di questo ulteriore passo falso per avviare una discussione sul livello qualitativo della nostra gastronomia. In Francia stanno rivedendo tutti i disciplinari delle DOP in senso restrittivo. Un solo esempio. Per i formaggi la quota di mangimi per vacca è stata portata a 1800 kg/anno/capo, cioè poco più di 5 kg al giorno. In Italia si arriva anche a 15 Kg. E i mangimi oltre che diluire la qualità influiscono negativamente sul benessere animale. Però vuoi mettere la fama del Made in Italy!
Ma poi se in Made in Italy è forte perché abbiamo tanta paura? Perché noi non sappiamo se e perché siamo forti. Come si fa ad avere paura del grano canadese o di quello del New Mexico o dell’Arizona, dove la proteina è al 15%, ma le rese arrivano a 100 q/ha? Perché noi siamo così sciocchi da dare una importanza che alla proteina, una molecola che non ha alcuna relazione con la complessità aromatica e nutrizionale del grano, ma che serve solo all’industria per i processi di lavorazione. Tanto è vero che le paste con il più alto contenuto di proteina costano poco, viceversa quelle che costano molto hanno un basso contenuto di proteina. Da cosa dipende la qualità del grano? Quasi esclusivamente dalla resa per ettaro. Come per il vino. E poiché in Italia ci sono larghe fasce di territorio dove le rese si mantengono medio-basse, noi non abbiamo bisogno di bloccare il grano canadese. Quindi, la gran parte dei nostri grani vale di più, ma l’industria non lo sa e il consumatore di fronte ad un pane senza odore e sapore si limita e osservarne l’occhiatura che è solo l’effetto della tecnica. Così come nella pasta si guarda alla trafilatura perché il sugo si incorpora meglio. Credo che in pochi conoscano il sapore della pasta. Per questo il lavoro da fare è quello di dare valore alle materie prime, individuando i fattori che ne determinano le differenze. Che è un po’ la filosofia del metodo Nobile.
Quindi noi non dobbiamo temere le produzioni che vengono dall’estero, perché anche da quelle parti ci sono produttori che lavorano e sperano di vendere. Dobbiamo saper valutare e valorizzare le nostre produzioni. Ma se ci attacchiamo alla proteina, o al grasso come nel latte e nella carne, allora avanti tutta con l’agiografia del prodotto unico. Il re è nudo.
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ANGELO PELLICCIOTTI
22 settembre 2019 ore 11:29Condivido ogni parola dell'autore, la conoscenza e la corretta informazione sono basilari per affermare una sana coscienza e cultura alimentare, partendo ovviamente dalla scuola e dalla secolare tradizione agronomica e culinaria delle nostre terre. C'è tanto lavoro da fare...