Editoriali
Nessuno tocchi la Taggiasca
Slow Food si schiera, in maniera inequivocabile, contro il cambio del nome della varietà: "non può essere la soluzione anche perché è uno strumento irreversibile che di fatto, si dovesse rivelare inefficace – come temono tanti olivicoltori – anche solo in parte, non consentirebbe di tornare indietro" spiega Gaetano Pascale, ex presidente Slow Food Italia
12 ottobre 2018 | Gaetano Pascale
In Liguria il dibattito sulla Dop dell'oliva Taggiasca continua a dividere olivicoltori, frantoiani e confezionatori su due fronti contrapposti.
Eppure bisogna dire che, almeno nelle intenzioni, l’obiettivo dei due fronti dovrebbe essere lo stesso: tutelare la cultivar Taggiasca e il suo territorio d’elezione, dai rischi, reali o potenziali, di imitazione. Se l’obiettivo è condiviso, ed è effettivamente quello di legare indissolubilmente il surplus di valore che può generare questa varietà, allora bisogna trovare di mettersi d’accordo anche sui principali strumenti per raggiungerlo.
Perché oggi ciò che divide non è affatto la costituzione di una DOP a tutela della cultivar, bensì l’inserimento del nome della cultivar nella denominazione protetta e in particolare la costituzione di una “DOP Taggiasca” che comporterebbe la necessità di un cambio di denominazione della cultivar, in quanto il nome della DOP e quello della cultivar non possono essere identici.
Il cambio al nome della cultivar a nostro avviso non può essere la soluzione a un problema che è molto più complesso, perché dimostrare che le produzioni di questo territorio, che siano olive da mensa o oli extravergine, sono irriproducibili altrove, contempla una serie di azioni che passano prima di tutto attraverso l’affermazione del nome del territorio (l’esempio virtuoso di tanti vini che oggi fanno la fortuna dei produttori ci dovrebbe essere d’esempio). E se pensiamo a un territorio che ha così tanto da raccontare (oliveti secolari, terrazzamenti, tecniche olivicole) come questo, ci rendiamo che conto che le condizioni ci sono tutte.
Ma non può essere la soluzione anche perché è uno strumento irreversibile che di fatto, si dovesse rivelare inefficace – come temono tanti olivicoltori – anche solo in parte, non consentirebbe di tornare indietro. E soprattutto i piccoli olivicoltori, che sono l’anello più debole (ma anche il più prezioso) delle filiere oleicole e olivicole, non potrebbero più far leva sul nome della varietà per dare valore al proprio lavoro.
Le denominazioni d'origine nascono come mezzo di tutela collettiva accessibile a tutti gli operatori, grandi e piccoli. Sempre più spesso accade invece, anche all'interno della stessa filiera, che vengano utilizzate per proteggere i produttori più forti a scapito di quelli deboli. Ci auguriamo che in questo caso ciò non accada.
Noi crediamo che l'agricoltura di qualità debba restare un patrimonio della collettività, ben riconoscibile per chi produce e trasforma, e anche per chi consuma.
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