Editoriali 21/09/2018

Il tempo, fattore chiave per la rinascita dell'agricoltura

I minuti per ammirare un paesaggio non sono mai persi, così come per ascoltare le parole di vecchi e giovani agricoltori. Si spreca tempo, invece, quando si rifiuta di dare all'agricoltura la sua centralità. L'agricoltura che esprime e valorizza può anche sfamare 10 miliardi di persone nel 2050, secondo Pasquale Di Lena


E’ il tempo che, nei giorni più tristi del consumismo e dello spreco che stiamo vivendo, viene maggiormente consumato e, così, sprecato. Una rincorsa costante che lascia cadere sulla strada, che prima è stata asfaltata o cementificata, il meglio, quello che servirebbe al domani per dare nuove speranze, nuova vita. Ma l’asfalto e il cemento, con il tempo ormai già consumato, hanno coperto, dopo aver prodotto pacchi di denaro, la terra fertile e, con essa, le speranze, la nuova vita. Un tempo buttato al vento che porta la pioggia, la più violenta e cattiva; il caldo che brucia anche le ombre della quercia possente e secca il ruscello appena nato. Bisogna ridare al tempo il tempo del riposo perché possa riconquistare il ritmo perso, quello stesso di cui ha bisogno la terra per continuare a dare il cibo del domani.

Come un tempo? Come un tempo, ma con un pizzico di sapienza in più, la conoscenza, perché l’arcobaleno, quello che illumina il mio paesaggio, possa continuare ad emozionarmi con i suoi colori; la poiana possa architettare il suo volo; l’olivo far sentire il fruscio delle sue foglie al sole che cala dietro il monte non lontano.

Così so che posso avere nella mia mano il tempo che passa e, con esso, ragionare sulle cose da fare, come pure so che è inafferrabile quello che vola e, come tale, una perdita di tempo, proprio nel momento in cui resta poco tempo per ragionare su cosa fare ora, domani e nei giorni che verranno, per assicurare il cibo ai dieci miliardi di individui che abiteranno questa terra fra trent’anni, un tempo non lontano.

In pratica, arriva il momento in cui non servono i particolari per capire la situazione perché è la situazione che, raccogliendo tutti i particolari, si mostra per quella che è. Penso alla agricoltura industrializzata e ai processi maturati sulla spinta di un suo sviluppo a senso unico che ha avuto ed ha come obiettivo la quantità , quale necessità per soddisfare la crescita di una domanda, sotto la spinta di un consumismo sempre più esasperato, e ottenere il massimo profitto. Il profitto per il profitto che, non conoscendo e riconoscendo i limiti della Terra, non sapendo cosa vuol dire “finito”, continua a distruggere per trasformare tutto in denaro.

Tutto, nel senso di ambiente; paesaggio; suolo, in particolare la sua fertilità; biodiversità; acqua, soprattutto se potabile; aria, con la distruzione di milioni di ettari di foreste, cioè ossigeno per fare posto alla CO2 e, così, aumentare l’effetto sera e, con esso, il cambiamento climatico. Tutto, nel senso, anche, di storia, cultura, tradizioni. La distruzione, in pratica, dei valori e delle risorse di un territorio, sia esso piccolo o grande. L’idea di una rincorsa senza soste che porta ad arraffare tutto, più per mania, strafottenza, onnipotenza, che per necessità, con il risultato di un fallimento pagato a caro prezzo dalla Terra e da chi la abita o la rende viva con i suoi colori e i suoi profumi.

Se questo è il quadro della realtà prodotta dall’agricoltura industrializzata, frutto delle rivoluzioni verdi che hanno caratterizzato la seconda metà del secolo scorso, alimentando e facendo crescere solo la finanza e le multinazionali di ogni tipo, c’è un’altra realtà, che ci riguarda, quella dell’agricoltura contadina, sconvolta, e, nella gran parte dei casi, sottomessa sempre più al primo modello di agricoltura che, qualche mese fa, la Fao ha dichiarato fallito. Una sottomissione frutto di scelte politiche che lo stesso mondo agricolo non ha avuto la forza, quando non la voglia, di controbattere e vincere per affermare due cose primariamente: la centralità dell’agricoltura, il solo volano per uno sviluppo equilibrato; un nuovo modo di fare agricoltura, nel rispetto delle vocazioni del territorio e della sua capacità di essere origine di qualità e di diversità.

Si è perso tempo, tanto tempo, e si sono prodotti, anche qui, danni, primo fra tutti l’abbandono di territori e di aziende, che hanno reso ancor più fragile il tessuto della nostra agricoltura, fondamentalmente contadina. Un modello di agricoltura che non aveva bisogno di essere industrializzata, ma valorizzata per le sue peculiarità, tutte espresse dai tanti e differenti territori, che sono il passato ed il presente di questo nostro Paese, ancor più il domani.

Un’agricoltura valorizzata, soprattutto se definita, programmata ed organizzata per il mercato, per essere sempre più, con i suoi ambienti, i suoi paesaggi, le sue tradizioni e i suoi prodotti, immagine di bellezza oltre che di bontà, fonte di benessere e di salute.

Organizzata per il mercato, sempre più globale, per avere, con la qualità e la diversità, quel valore aggiunto che serve a dare un giusto reddito al coltivatore –produttore, al pastore, all’allevatore. Quel reddito che è venuto meno con i tanti sostegni alla produzione, che sono solo serviti: da una parte, ad indebitare il coltivatore con la sua partecipazione al finanziamento e, dall’altra, ad arricchire i paperoni della finanza e delle multinazionali; a dare immagine a governi e amministratori insignificanti delle Regioni italiane.

Si tratta di ribaltare la situazione, e, perché questo accada, non basta solo un nuovo modo di fare agricoltura, che è quello di far vivere e crescere la sostenibilità, ma, anche, di organizzare le filiere in modo che il produttore abbia lo spazio che gli è dovuto e non sia più nelle mani di interlocutori rapaci. Si tratta, anche, di allargare il quadro delle nostre indicazioni geografiche, attingendo da quel ricco paniere dei prodotti tipici tradizionali, per consolidare un primato al mondo; di rivedere la distribuzione dei prodotti agricoli, oggi nelle mani della grande distribuzione, creando e diffondendo tutte le opportunità che portano a far vivere, in modo diretto, il dialogo produttore- consumatore.

L’agricoltura italiana, già vincente sul mercato globale, può, con una sua nuova programmazione e organizzazione, e, soprattutto, con una strategia di marketing sopportata da strutture e strumenti adeguati, cogliere risultati ancor più esaltanti, successi che valgono per i tanti territori che la esprimono con la qualità, la diversità dei prodotti, ma anche la storia, la cultura, i paesaggi e le tradizioni. Dimostrando, ancora una volta, che essa, diversamente dagli altri settori dell’economia, distribuisce ricchezza, opportunità, cioè sicurezza e fiducia nel domani, così importanti per i giovani e il futuro di questo nostro amato Paese.

Un’agricoltura che esprime e valorizza, con le risorse ed i valori propri del territorio, il glocale e lo rende vincente sul globale. Un’agricoltura che, pensando ai già citati 10 miliardi di abitanti della Terra nel 2050, ha tutto per affermare non solo la sicurezza alimentare ma la sua sovranità.


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