Editoriali
Una preghiera per l'agricoltura
Nessuno vieta di considerare la dolce preghiera, come una vera e propria pratica agricola; si faceva così nella vecchia Babilonia... Dobbiamo rassegnarci al profitto come nuova agro-religione? Le riflessioni di Mimmo Ciccarese
22 luglio 2016 | Mimmo Ciccarese
Come avrebbero fatto gli antichi agricoltori romani a proteggere i loro raccolti senza la provvidenza dei loro Dei? Forse allo stesso modo con cui avrebbero fatto gli antichi egizi, i babilonesi, i celti medievali o i popoli asiatici?
C’è un filo non tanto sottile che lega l’agricoltura ai dogmi e ai miracoli. Le intercessioni dirette restituivano pregio e sacralità ai raccolti. Erano le stesse divinità che decidevano la sussistenza delle famiglie.
Ai giorni nostri è rimasto ancora, qualche scampolo di rito popolare o una sagretta a km zero dedicata al santo tutore delle messi e della vendemmia. Ancora oggi per ogni seme di rosario, si spera che i giorni diventino più produttivi.
La siccità o una gelata primaverile sarebbero, quindi, avversità divine, dovute ad una preghiera inespressa? In molte comunità rurali, lì dove si rivelano nuovi pensieri di pace e speranza, l’esigenza di pregare si avverte più forte. Tutto come prima, allora, nulla sembra cambiato.
Come sempre è l’entità femminile che presiede al culto della fertilità. Oggi la si vuol far intendere come il diretto legame con la natura, con gaia, la grande madre. I frutti ottenuti assumono toni sempre più importanti, a volte, così severamente deificati che hai perfino il timore di mangiarli. Sarà questa l’agricoltura della nuova era? Il nuovo ora et labora. Per alcuni potrebbe diventare una sorta di agro-religione.
Chi invece non bada a spese, preghiere e agricolture 2.0, può concedersi ancora il lusso d’irrigare e concimare il proprio orticello se esso manifesta momenti di sviluppo disperato. Per un orticoltore sarebbe una seccatura vedersi lessare i pomodori da un sole impietoso.
Nessuno proibisce di pregare. Nessuno vieta di considerare la dolce preghiera, come una vera e propria pratica agricola; si faceva così nella vecchia Babilonia, tra i popoli assiri, nell’antico Egitto, per adorare le dee protettrici Ishtar e Iside. Non è una novità.
Come un tempo, ci si prostra all’alba e alla luna, ai confini del proprio piccolo podere, per recitare umilmente il proprio personale mantra.
Le preghiere sono ammesse per ogni metodo d’agricoltura, da quello convenzionale a quello naturale, non ci sono disciplinari di produzione che le regolano, le aspirazioni sarebbero comuni, ci sarà sempre un anima semplice che consacrerà il raccolto a qualche nuovo beato.
Tra i popoli celtici dell’Europa centrale con la cultura dei boschi, ci s’intrecciavano miti e leggende. Con i celti, i rituali si riferivano alla natura, fino al giorno in cui furono banditi da altri invasori che portavano un'altra fede.
Un tempo s’invocavano le ninfe delle querce, dei pini, degli ulivi. Per ogni meridiano c’era un nume da venerare. Nel mediterraneo, gli antichi romani furono tra i primi a cominciare con la dea Cerere, ereditandola dalla cultura greca di Demetra.
Cerere si onorava festeggiando dalla seconda decade di aprile fino a fine maggio. I greci, invece, portavano offerte sull’altare di Cibele e di Attis, dio della vegetazione, il figlio generato da Zeus. Vi era una preghiera per ogni divinità se non addirittura un mito per ogni specie coltivata.
È un rito propiziatorio quello che si fa in Salento con il passaggio attraverso le cavità di un ulivo millenario dopo aver fatto un giro completo intorno al suo tronco. Forse questo sarebbe stato la premessa alla certosina raccolta delle olive, quasi come a voler disegnare sulla terra l’alfa della stagione che culminava con quella Croce cristiana incisa sull’entrata di ogni frantoio medievale ipogeo.
Attraverso la pietra forata del tempietto dedicato a San Biagio, tra le campagne della Grecia Salentina le donne sfilano durante la ricorrenza per ingraziarsi fertilità e benessere. Attraverso i menhir eretti in Sardegna e in Puglia, gli antichi popoli avrebbero rimesso alle loro divinità agricole le migliori speranze.
Fermiamoci qui, dove non è più possibile elencare gli smisurati esempi che ho riscontrato tra le campagne visitate. Fermiamoci sulle parole di questa breve preghiera salentina, da recitare ad alta voce, per conciliare il duro lavoro nei campi con un felice raccolto, immaginando per una volta, di essere piccoli semidei di campagna.
Oh Matonna all’annu neu
Me presentu annanti a tie
Nu uardare lu panaru
Picca ranu e picca ulie
Oh Matonna iou te preu
Porta acqua quannu ccrai
Famme stare te signuru
Nnuci preciu e lende uai
Trad. Oh Madonna per il nuovo anno, sarò qui al tuo cospetto, non guardare il mio paniere, ho poco grano e poche olive. Oh Madonna io ti prego, porta pioggia nel futuro, fammi vivere da signore, portaci gioia e toglici i guai
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