Editoriali 25/03/2016

Manca l'olio d'oliva italiano ma le cisterne sono piene


E' stato approvato il primo e vero Piano Olivicolo Nazionale italiano con conseguenti e unanimi applausi generali.

Molti comunicati e dichiarazioni si sono concentrati sulla necessità di incrementare la produzione nazionale, sulla volontà di tornare alle 500-600 mila tonnellate di olio Made in Italy.

Bene, anzi benissimo, ma cosa ci vogliamo fare poi di tutto quest'extra vergine?

Forse non avremo più bisogno di importare olio tunisino. Forse potremo finalmente ridurre le importazioni dalla Spagna e dalla Grecia.

Già, forse.

L'Italia, venti o trent'anni fa, produceva più delle 300-350 mila tonnellate odierne. Certo non le 650 mila di storica memoria ma l'abbandono degli oliveti è storia moderna, così come il crollo produttivo.

Allora, quando l'Italia produceva di più, le cisterne erano piene di olio italiano, così come lo sono oggi. Nessuna differenza.

Basta fare un giro di telefonate a frantoi e commercianti per scoprire che, a metà marzo, le giacenze di extra vergine italiano sono tutt'altro che insignificanti. L'olio Made in Italy c'è e in abbondanza, anche a fronte di un'annata “normale”, da 300-350 mila tonnellate.

Se l'olio italiano c'è, perchè comprare quello spagnolo, tunisino o greco? Semplicemente perchè è a più buon mercato. La stessa ragione per cui imbottigliatori e industriali cominciarono, venti o trent'anni fa, a guardare oltreconfine per approvvigionarsi.

Oggi imbottigliatori e industriali lamentano la scarsità di prodotto italiano ma poi lo lasciano nelle cisterne dei frantoi. Costa di più, in media 30-40 centesimi rispetto a un olio iberico, e come ricordato dal neo direttore di Assitol, Andrea Carrassi, “l'origine non è la patente della qualità”, aggiungendo “ci sono degli ottimi olii italiani e ci sono degli ottimi olii di provenienza straniera”.

Vediamo di ricapitolare.

Trent'anni fa, imbottigliatori e industriali cominciarono ad approvvigionarsi di olio estero, invece che di italiano. La giustificazione era che l'extra vergine italiano costava troppo. Questo ha provocato il crollo della produzione italiana.

Oggi gli imbottigliatori e industriali italiani dicono che le quantità di olio italiano sono insufficienti, troppo basse persino per coprire il fabbisogno nazionale, ma lasciano l'extra vergine nostrano nelle cisterne. Al contempo aprono le porte a ulteriori 35 mila tonnellate di olio tunisino, duty free.

L'olio italiano oggi costa un po' di più rispetto a quello spagnolo e tunisino ma “l'origine non è patente di qualità” che, tradotto, significa che non necessariamente un olio italiano deve costare di più di un olio estero.

Per la legge della domanda e dell'offerta, a un incremento della disponibilità di olio italiano, come da Piano Olivicolo Nazionale, corrisponderà una diminuzione del prezzo. L'olio italiano costerà tanto quanto quello spagnolo, tunisino o greco, semplicemente perchè “ci sono degli ottimi olii italiani e ci sono degli ottimi olii di provenienza straniera”.

Ogni differenza legata al territorio, alle tradizioni, ai campanili, alle storie di persone e di generazioni verrà annullata.

L'olio è olio. Tutto uguale.

Il valore aggiunto non sta nell'agricoltura, che produce solo una derrata, una commodity.

Sta nell'industria che sa plasmarla, miscelarla e darle un'identità.

Aumentiamo pure la produzione italiana a 500-600 mila tonnellate ma poi chiediamoci cosa vogliamo farne di quest'olio, prima che sia troppo tardi.

di Alberto Grimelli

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Commenti 6

Francesco Donadini
Francesco Donadini
06 agosto 2016 ore 08:58

gentili tutti, vorrei che ci togliessimo dalla testa l'idea che l'ìndustria o il commerciante tradizionale possano apprezzare la qualità dell'olio extravergine italiano che dipende dalla qualità della terra e dalla qualità della lavorazione. Per l'industriale e il commerciante tradizionale la qualità non esiste, c'è solo la quantità! Il rapporto quantità/prezzo è l'unico valore "mantra" del loro operare! Smettiamola di credere in concetti impossibili! Per il consumatore la qualità è invece molto importante e, se educato, lo capisce benissimo e si dimostra disposto ad acquistare al giusto prezzo. Ma questo è un altro mondo, questo è lo scenario del futuro, della consapevolezza della salute, è un altro circuito. Alla catena della vendita tradizionale (quantità / prezzo / standard) si sta affiancando la ragnatela della vendita prossima (qualità / prezzo / biodiversità). L'economia comincia a preoccuparsi e li definisce consumatori negativi (perchè pensano ), la politica è in una fase di nebbia compulsiva (vorrebbe ma non può), i produttori di olio extravergine stanno a guardare divisi all'inverosimile e purtroppo in totale crisi di identità, alcuni orgogliosi di ciò che fanno, altri depressi perchè non sanno che fare bene è solo un vantaggio! Grimelli ha fotografato la situazione, da parte mia mi chiedo quanto ci vorrà che i Frantoiani e tutti quelli che lavorano bene facciano squadra davvero, diventino i protagonisti della ragnatela dell'olio e la smettano di svendere a imbottigliatori piangendo che il prezzo è basso.

macchineolearieferrara ferrara
macchineolearieferrara ferrara
30 marzo 2016 ore 19:08

Signori miei ricordo una ventina di anni volpinamente chiesi ad un commerciante perchè le cisterne di olio italiano fossero stracolme e invece a Bari si scaricavano navi dalla Grecia a tutto spiano pur con una forbice di prezzo bassissima (dugento lire/kg dell'epoca).Ebbene mi rispose che lui comprava italiano solo di pressa,se glielo davano al prezzo corrente di mercato,mentre l'altro lo avrebbe acquistato solo quando fosse terminato quello greco,se non arrivava l'altra produzione nel frattempo,in quanto più gradevole al palato.Fate un po' Voi!!!!!!

sebastiano forestale
sebastiano forestale
29 marzo 2016 ore 10:47

Voglio ricordare la conclusione della ricerca svolta dall’Università di agraria di Bari su “Modelli olivicoli innovativi: un’analisi comparativa” del 2011, che così recita “Per rilanciare la nostra olivicoltura è necessario un sostegno pubblico agli investimenti per il rinnovamento degli impianti, ma nello stesso tempo è indispensabile intervenire per migliorare l’organizzazione e il funzionamento della filiera, riequilibrando i rapporti di forza tra le diverse fasi della stessa e garantendo una più equa distribuzione del valore. La necessità di un rinnovamento strutturale dell’olivicoltura italiana deve essere affiancata dalla promozione e valorizzazione della qualità attraverso un approccio di filiera. In questa prospettiva il modello di olivicoltura intensivo appare più appropriato al contesto produttivo italiano poiché si presta meglio nel valorizzare il ricco patrimonio varietale delle olivicolture nazionali.” Secondo me dobbiamo guardare al futuro e il futuro ci obbliga ad 1) abbassare i costi di produzione, 2) aumentare la produzione ad ettaro, 3) essere competitivi 4) avere il coraggio di rinnovare la nostra olivicoltura. Le varietà, il terreno e il clima poi fanno la differenza. E per finire, ma non per importanza, la vera filiera italiana dell'olio d'oliva deve essere reinventata.

Alberto Grimelli
Alberto Grimelli
29 marzo 2016 ore 10:39

Sig. Fazio,
le affermazioni riportate, ovviamente, non sono il mio pensiero ma quello, più o meno esplicitato, da parte dell'industria olearia italiana e degli imbottigliatori.
Ricordo a tal proposito un passaggio della lettera di Federolio ai soci riguardo alle richieste alla politica che mirano, tra l'altro: "all’ottenimento del riconoscimento e della tutela in varie forme dell’”italianità” della operatività del settore del commercio e del confezionamento dell’olio di oliva".
Visto che l'obiettivo strategico di far sparire, o ridurre a un'ininfluente nicchia, l'olivicoltura italiana è impossibile, basti pensare alla reazione mediatica a seguito dell'annus horribilis, una strada alternativa possibile è privare il settore produttivo olivicolo di qualsiasi valore aggiunto, omologandolo a quello di altre nazioni, come Spagna e Grecia.
Benissimo, quindi, l'aumento produttivo, purchè accompagnato da politiche commerciali, non solo promozionali o di marketing, di valorizzazione dell'olio extra vergine di oliva italiano. Altrimenti ci ritroveremo, tra dieci o quindici anni, a chiederci come l'olio Mde in Italy è diventato una commodity.
Buona lettura

Enzo Giardino
Enzo Giardino
28 marzo 2016 ore 05:52

Complimenti Direttore,
il suo articolo analizza correttamente com'è la situazione commerciale dell'OLIO EXTRA VERGINE D'OLIVA Italiano. La parola chiave che spiega tutto è, secondo il mio modesto parere, " COMMODITY" .
Leggendo articoli inenerti lassetto societario di aziende olearie che possiedono i marchi storici italiani, si capisce che alcuni di questi anche se tornati in Italia sono alla ricerca di capitali provenienti dai fondi di investimento internaziionali. L'OLIO EXTRA VERGINE D'OLIVA magari anche messo in una bottiglia con un marchio prestigioso, negli anni passati, è diventato per certe aziende solo come far fruttare al massimo i capitali investiti. Meglio non entrare nei particolari, perchè chi è del settore e legge i normali giornali finanziari sa tutto. Gli industriali e le loro associazioni che hanno la fantasia di inventarsi delle risposte fuori da ogni logica e meglio che tacessero. In talia si è arrivati al punto che l'applicazione di scoperte scentifiche come ad esempio il DNA usato per gli ultimi sequestri di olio adulterato non viene accettato da parte delle aziende il metodo di controllo.Ogni giorno in televisione si ribadusce l'importanza della biodiversità negli oli Italiani, ma si è tempestati da spot che parlano di olio a bassissimo costo sullo scaffale. Il settore della produzione e della trasformazione ogni anno che passa viene sempre più impoverita ed umiliata. In italia a parte gli avvenimenti degli ultimi mesi si applica la teoria delle " Tre Scimmiette":
Bona Pasqua Fatta
Enzo Giardino Frantoiano dalla nascita

Antonio  Fazio
Antonio Fazio
26 marzo 2016 ore 20:26

Per alcuni versi questa sua analisi sarebbe anche condivisibile se non fosse per un paio di punti che spero siano solo una provocazione
1) l'olio non è tutto uguale, questo non c'è bisogno di spiegarlo, e di certo la diversità non è "creata" negli stabilimenti ma nelle campagne
2) il valore aggiunto del nostro olio, soprattutto all'estero, sta nell'italianità. Gli industriali lo sanno e fanno bene a sfruttare i propri marchi che spesso richiamano città e regioni italiane, ma lo fanno anche sulle bottiglie che contengono blend di olii comunitari.
Il paradosso quindi sta nello sfruttare l'italianità per vendere olio estero, a me non sembra corretto nei confronti di chi acquista né tantomeno di chi produce.
Buona Pasqua