Editoriali 18/03/2016

La fine dell'industria olearia nazionale


L'industria olearia nazionale non esiste più.

Sono pochi, pochissimi i marchi ancora completamente in mani italiane.

C'è Colavita, che però ha ormai più un'anima americana che italiana. C'è Monini, su cui si vocifera da qualche tempo la volontà di cessione. C'è Mataluni, che vedrà presto entrare partner stranieri nel proprio azionariato. Qualche azienda familiare, nella più tipica tradizione nazionale, vive e prospera: Oleificio Zucchi, Olitalia, Carli, Farchioni. Vi sono poi una serie di piccoli marchi che, per dimensioni e strategie, non possono nemmeno definirsi delle vere e proprie industrie.

La polverizzazione della proprietà dell'industria olearia italiana, al pari di quella fondiaria dell'olivicoltura nazionale, ne ha impedito la crescita. I personalismi e le conflittualità hanno reso impossibili cordate e scalate ai colossi, primi fra tutti Carapelli e Bertolli, messi in vendita anni fa.

E' allora, non oggi, che è cominciato il lento declino e poco hanno influito i vari scandali sull'Italian sounding o sul product of Italy.

Come per il settore olivicolo, l'abbandono degli oliveti e il calo della produzione d'olio d'oliva, inutile piangere sul latte versato.

Occorre guardare avanti, cercando di prevedere quel che accadrà nei prossimi mesi e nei prossimi anni.

La Spagna ha fatto diventare l'olio di oliva una commodity. Come per tutti gli altri prodotti commodity è prevedibile che si avrà una concentrazione del mercato nelle mani di pochi, pochissimi soggetti. Già oggi Deoleo, Sovena e Dcoop controllano più del 60% dell'olio di oliva mondiale. Si assisterà probabilmente a un'ulteriore semplificazione, per fusioni e incorporazioni nei prossimi anni.

Deoleo e Dcoop fanno ancora gli interessi della Spagna olivicola. Sono stati mediatori spagnoli, a novembre e dicembre, a sostenere le quotazioni dell'olio italiano, indirettamente favorendo la tenuta dei prezzi di quello iberico. Non è stato, anche se mi piacerebbe tanto crederlo, il patto di filiera e le 2000 tonnellate di extra vergine di qualità fin qui acquistate ad aver fatto il mercato.

E' altrove, e sarà sempre più così, che si decideranno le strategie, i prezzi, i grandi scambi commerciali.

L'Italia è fuori dal giro che conta.

Il nostro Paese, anche se in lento declino, continua a godere di una buona immagine all'estero. Il Made in Italy piace ancora. Non so per quanti anni ancora potremo godere di questo vantaggio competitivo ma finchè esiste, tanto vale sfruttarlo.

L'unica possibilità che rimane all'Italia olivicolo-olearia è smettere di pensare ai volumi e cominciare a pensare ai margini.

Se l'olio extra vergine Made in Italy di qualità o di eccellenza verrà utilizzato solo, come avviene oggi, per trainare le vendite dell'olio comunitario o di miscele a basso costo, il destino è segnato, per tutti.

Se l'olio extra vergine Made in Italy di qualità o di eccellenza verrà valorizzato, con politiche promozionali e commerciali adeguate, per esempio mettendo al bando il sottocosto o le offerte su questo prodotto, allora vi è qualche speranza di rinascita.

E' però irrealistico e utopistico pensare che questo possa avvenire solo grazie a quel che rimane dell'industria olearia nazionale, ovvero di proprietà italiana. I cinque principali brand, che hanno dichiarato di voler realmente sostenere la produzione nazionale, hanno capacità commerciali che non superano le 20 mila tonnellate, a fronte di 120-150 mila tonnellate di olio italiano a disposizione del mercato. Poco più di una goccia nel mare. Impossibile condizionare i prezzi sulla base di tali volumi.

Se l'industria olearia italiana ha sempre guardato al mercato e ai consumatori, badando ben poco al mondo produttivo, il contrario è accaduto in campo olivicolo. Le organizzazioni professionali e le cooperative si sono molto concentrate sui servizi ai soci e ben poco hanno volto lo sguardo al mercato e ai consumatori. Troppo deboli e arretrate, al momento, per pensare di farne il perno per un rilancio del settore.

I frantoi potrebbero, visto che sono loro a controllare la produzione di olio, essere i protagonisti ma non paiono volere, oggi, quel ruolo. Difficile fare cartello e sinergia operativa tra aziende artigiane vicine, impossibile pensare a reti d'impresa. E' l'individualismo a rendere impraticabile questa via.

Non si può guardare all'interno della filiera olivicolo-olearia, quindi, per sperare di uscire dalle secche.

Occorre proprio che a salvare l'olio italiano ci pensi qualcun altro che deve godere di tutto l'appoggio della filiera.

Quel qualcuno non può che essere la Grande Distribuzione. Sempre più interessata ai prodotti specialità, si può pensare di farla diventare protagonista di una rinascita dell'olio italiano.

Occorre che la GDO segga a un tavolo comune, non per ascoltare le rivendicazioni della filiera, ma per costruire tutti insieme un progetto di valorizzazione dell'olio italiano.

In ogni squadra ci deve essere un leader e, mi spiace moltissimo ammetterlo, non ne vedo emergere in una filiera olivicolo-olearia che è la somma di molte debolezze.

di Alberto Grimelli

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Commenti 2

Gigi Mozzi
Gigi Mozzi
20 marzo 2016 ore 09:41

L'industria olearia (in Italia e nel mondo) "produce" un bene che, per sua natura di "ingrediente" è una commodity. Per definizione, il mercato che consegue è un mercato competitivo, in cui le regole del gioco sono stabilite dalla dimensione, dalla efficienza, dalla produttività, dalla bassa marginalità e dalla economicità al consumo.
Le mosse competitive hanno portata istituzionale e iniziano con il presidio e la difesa della produzione nazionale: si parla di olio Spagnolo, Italiano, Greco, Tunisino e via di Paese in Paese, dagli emergenti ai sommergenti.
L'industria olearia (internazionale) impiega marchi importanti, alcuni di origine italiana, con i quali ha replicato il gioco dei cavalli di Troia: utili, solo per entrare nei mercati.
Se l'olio spagnolo, con modalità più o meno legittime diventa italiano e per questo trova margini più alti, la prima mossa possibile è quella di utilizzare i marchi italiani che generano valore, la seconda è quella di comprarli, la terza è quella di sostituirli.
È successo e succede in molti altri mercati: dal vino ad altri comparti alimentari e non, dalle automobili alle magliette, dai prodotti petroliferi fino al santo mondo del web.
Proviamo ad immaginare, col senno di poi, che Carapelli, Bertolli & Co siano da considerare come semplici strumenti che sono serviti, prima per dare sbocco alla produzione, poi per preparare l'assalto ai mercati mondiali, per arrivare alla fine a giocare la partita contro le brand di casa Spagna: e perderla.
Non dimentichiamo che stiamo parlando del mercato commodity, in cui l'olio figura come ingrediente, materia prima che ha lo scopo di ungere, di lubrificare: prodotto basico, il cui prezzo di riferimento alla produzione è stabilito dalle quotazioni istituzionali e il cui prezzo al consumo vive in balìa di tempeste promozionali continue.
Niente a che vedere con una categoria formata da "prodotti specialità" che sembrano uguali, ma offrono un servizio diverso: invece di ungere semplicemente, hanno l'ambizione di condire, di armonizzare il gusto e di esaltare i sapori del cibo.
Niente a che vedere: anche se a guardare bene da vicino, si scopre che il mondo commodity ha messo gli occhi sul mondo specialità, replicando il modello competitivo della conquista invisibile, che prima prevede di utilizzare e distribuire i prodotti specialità, per poi comprarli e, alla fine, sostituirli.
La categoria delle specialità, IGP e DOP in testa al gruppo, dà l'impressione di sottovalutare questo problema e, ignorando il pericolo fuori dalla porta, si preoccupa solo di sgomitare con il vicino di banco.
Con un pizzico di arroganza, si preoccupa di posizionamento solo per le caratteristiche dei prodotti e non per i bisogni dei consumatori, si interessa di immagine solo per gli aspetti di presentazione e non di percezione, si occupa della comunicazione solo per quanto viene dichiarato e non per quello che viene capito.
Con un pizzico di superbia, non si preoccupa di chiamare i fratelli di Davide, ma va allegramente da solo alla lotta contro Golia, sperando che vada sempre bene, come la prima volta.
Sembrerebbe che si debba preparare il funerale, oltre che per l'industria olearia, anche per la piccola impresa del comparto, per gli olivicoltori e per i frantoiani e che il trascinamento delle commodity implichi anche le specialità.
Invece, no.
Potrebbe bastare l'idea di pochi, capaci di impedire l'invasione degli ultra-oli, bloccando i furti di posizionamento e di immagine, creando partnership con i distributori, coinvolgendo i ristoratori e aprendo il dialogo con i consumatori alle virtù gastronomiche e salutistiche del condimento principe della cultura mediterranea.
Partiamo dalla nostra storia, da una piccola occasione che intendiamo allargare e diffondere, da un Premio che ha iniziato una epopea, da un racconto che piano piano si è affievolito ma ha sempre tenuto il filo.
Partiamo dal Leone d'Oro, che da quest'anno non sarà più solo un Premio per la Qualità (l'olio nella bottiglia) ma anche un Premio per il Valore (l'olio nel piatto), non sarà più solo un dialogo tra pochi ma un Convegno aperto a dibattiti, non sarà più solo il confronto dei "panel di assaggio" ma l'ingresso dei "panel di consumo", sarà aperto alle IGP e alle DOP ma anche alle "private label".
Sarà il censimento di coloro che sono fieri del loro lavoro e che hanno l'impegno della qualità, declinata in tutti i mondi, in tutti i territori, in tutte le cultivar, in tutti i processi produttivi, in tutte le sperimentazioni, senza avere vincoli di quantità.
Vogliamo dare un premio, non solo a chi vince, ma a chi partecipa.
Per incominciare oggi una nuova storia: perchè oggi non è l'ultimo giorno del nostro passato, ma il primo del nostro futuro.

ferdinando de marte
ferdinando de marte
19 marzo 2016 ore 09:14

Negli anni fine 80 e 90 gli spagnoli facevano la fila,negli uffici della nostra industria nazionale, con il cappello in mano, per vendere il loro olio in quanto l'Italia deteneva le più grosse raffinerie di olio (circa 20 contro le 2 rimaste oggi), i più grandi marchi storici di confezionamento e le più grosse aziende di commercializzazione di olio di oliva deteneva quindi, la commercializzazione mondiale dell'olio di oliva di oliva. Poi non so cosa si successo, di una cosa sono certo, queste aziende venivano viste dai produttori come i loro più grandi nemici, pregiudizi dettati spesso dall'ignoranza e incompetenza, politi e sincati di categoria con un populismo spregiudicato hanno cavalcato la tigre della protesta, distruggendo per una serie di motivi, prima tutte le raffinerie italiane mettendoli in condizione di chiusura totale, poi stancando tutte quelle famiglie che detenevano i più grossi marchi italiani, trattandoli quasi come volgari delinquenti e nemici del popolo, costringendoli alla fine di cedere le armi e vendere le loro aziende alle multinazionali, alcuni esempi... (Bertolli, Carapelli, San Giorgio alla Unilever, Sasso alla Nestlè,Monini alla Star e così via). Le multinazionali dopo aver utilizzato bene la rete di distribuzione mondiale di queste aziende, attraverso l'inserimento di altri loro prodotti, hanno pensato bene di vendere questi marchi a chi?.. agli spagnoli.... poi la gloabalizzazione ha fatto il resto passandoli a sua volta di mano ad altri gruppi solo per speculazioni finanziarie.
Pensate, l'unica ultima grossa azienda italiana rimasta e cioè la Salov di Livorno detentrice dei marchi Sagra e Berio, primo marchio in USA, dai fratelli Fontana il pacchetto di maggioranza è passato a chi ? ma hai cinesi , ovvio..!!! , pensate oggi per vendere un'autobotte di lampante si è costretti a vendere solo alla Salov, e se questi non sono agli acquisti svenderlo agli spagnoli. Tutto questo avveniva e avviene con la benedizione di tutti i nostri politici e di tutti i sindacati di categoria, i quali avrebbero dovuto difendere una "storia tutta italiana" che oggi italiana non più. Per salvare l'olio italiano bisognava sedersi con questi grossi marchi allora italiani ,GDO compresa ed elaborare un proggetto comune per la valorizzazione del nostro olio. come fa una piccola azienda agricola che produce i 50 / 100 qli di olio soppartare costi di confezionamento, distribuzione, viaggi , incontri ecc.., ecc.. ma soprattutto costanza nelle forniture. A voi la soluzione....