Editoriali 30/01/2015

Il mondo dell'olio di oliva non l'ha ancora capito


Olio e vino sono prodotti diversi, diverso il loro modo di stare in tavola e l'approccio del consumatore.

Hanno avuto una storia diversa.

Hanno, per la sfortuna dell'extra vergine, anche diversi protagonisti.

Di solito sono restio a parallelismi tra i due mondi ma in certi casi non se ne può fare a meno.

Riporto due stralci di interviste in cui mi sono recentemente imbattuto.

Per il vino Angelo Gaja.

Per l'olio d'oliva Zefferino Monini.

“Da anni siamo costretti a importare le olive, ci dovremmo svegliare!” sostiene l’industriale Zefferino Monini suggerendo che “non c’è e non c’è stata programmazione” in campo agronomico e produttivo. Secondo Monini bisogna rendere più efficiente il sistema dei controlli ma soprattutto “produrre più olio e con standard qualitativi più alti”. Queste le dichiarazioni dell'industriale umbro su Meteoweb.eu. Monini è anche vicepresidente del Ceq che, a fine dicembre 2014, ha proposto l'importazione in Italia del sistema superintensivo spagnolo, tout court. Niente Dop o Igp: l'Italia, insomma, deve inseguire la Spagna, la Tunisia, il Marocco lungo la direttrice quantità a basso prezzo.

“Credo che l'aspetto che interessi di più sia il racconto delle storie che stanno attorno al vino, non la malolattica o i lieviti autoctoni – ha detto Angelo Gaja in un'intervista a Repubblica.it - Sono due le categorie tra chi parla e scrive di vino: ci sono quelli che mettono il naso nel bicchiere capaci di illustrare tutte le caratteristiche del vino. Poi ci sono quelli che il naso lo mettono anche fuori, che raccontano un vino. Veronelli era uno di questi. E se il "dentro" è importante, il "fuori", il territorio da cui nasce un vino, la storia di un produttore, l'andamento dei mercati, lo è almeno altrettanto.”

Seppure Angelo Gaja sia un produttore di vino, al contrario di Zefferino Monini che non è un produttore d'olio, entrambi non sono degli artigiani né le loro aziende possono essere annoverate tra le piccole e medie imprese italiane. Si tratta di realtà confrontabili da punto di vista dimensionale e di struttura.
L'approccio dei due imprenditori al mercato e ai consumatori è però molto diverso.

Sul fronte oleicolo siamo ancora fermi alla competizione di costo, alla lotta all'ultimo centesimo di euro nei confronti dei competitor internazionali, alle dinamiche da prodotto civetta sugli scaffali dei supermercati, al bassa acidità per strappare un cliente in più.

Sul fronte vitivinicolo si parla di territorio, di persone e di come questi elementi si possono combinare col mercato, al di là delle qualità intrinseche del prodotto stesso e al di là delle tecniche di produzione. Meno malolattica e più racconto.

Anni luce di distanza.

Il mondo dell'olio d'oliva è rimasto tanto indietro nei confronti di quello del vino per colpa dei consumatori, incapaci di capire che amaro e piccante significano qualità, o per evidenti responsabilità dei protagonisti della filiera olivicolo-olearia?

di Alberto Grimelli

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Commenti 20

Sergio Enrietta
Sergio Enrietta
04 febbraio 2015 ore 11:50

Intanto la mia stima per il signor Monini che ha esposto il suo punto di vista con un discorso obiettivamente interessante al fine di avere un quadro il più completo possibile sull'argomento.

Secondo me, non è un problema se usa a fini pubblicitari l'opera in ogni caso meritoria attuata sull'oliveto.
Lo hanno fatto, lo hanno fatto bene secondo loro, male secondo altri, lo hanno però fatto, per di più si dichiara anche disponibile a fornire informazioni produttive innovative, almeno per me va nella direzione di rispondere per una parte, ai quesiti posti dall'articolo iniziale.

Io appena ne avrò l'esigenza comprerò uno dei suoi prodotti, ieri in Coop l'ho già adocchiato e se sarà di mio gusto ne sarò contento, come lo saranno i suoi clienti che continuano a comprarlo.

Ovviamente, io mi illudo che non mi soddisferà totalmente, e proprio in questo spazio di differenza, che conto ci sia spazio per un olio di oliva diverso, artigianale.

Probabilmente anche il signor Monini avrà casualmente avuto occasione di assaggiare oli che senza pretesa di essere più buoni, sono però diversi e altra cosa, per cui la motivazione per me giustificata di difenderne le particolarità, senza un imperioso vincolo che limita in etichetta: Provenienze, varietà, trattamenti fatti o non fatti, ecc.

Per capirci, i piccoli e diciamo pure insignificanti, vorrebbero smettere di fare i portatori di acqua, pardon, pubblicità, per chi già con i numeri e le quote di mercato, direi, potrebbe anche fare a meno.

Io credo che stante le condizioni del momento, anche il signor Monini, in cambio di un mondo dell'olio di oliva multicolore, multivarietale, monovarietale, ecc sarebbe disposto ad aprire le porte della gabbia normativa, che magari in altre epoche ha contribuito a chiudere.

In ogni caso grazie a tutti per aver per ora, spostato un po' le tende.

Alberto Grimelli
Alberto Grimelli
04 febbraio 2015 ore 09:16

Gentile Sig. Monini,
sarò ben lieto di ricevere la documentazione promessa, unitamente, se possibile, a qualche ulteriore informazione tecnico-agronomica ed economica, tale da farmi meglio capire il modello che la Monini e il Ceq propongono per l'olivicoltura italiana.
Personalmente conosco ricerche scientifiche, per esempio delle Università di Pisa e Perugia, che indicano un costo di produzione, nel centro Italia e nelle migliori condizioni, di 4-4,5 euro/kg.
Inoltre. In Italia esistono decine di migliaia di olivicoltori e frantoiani hobbisti, che producono l'olio per amici e parenti o anche semplicemente per mantenere il patrimonio di famiglia. Ci sono migliaia di olivicoltori e frantoiani che svolgono quest'attività per ricavarne il reddito principale. Non discuto la passione, e l'orgoglio per la propria produzione, né degli uni né degli altri. Così come non discuto la sua passione. Mi limito a sottolineare che sono veramente pochi gli olivicoltori e frantoiani hobbisti che utilizzano il loro hobby per fini promopubblicitari, ovvero per vendere più olio e incrementare così il giro d'affari della loro attività principale.
Infine. Non ho mai messo in discussione il ruolo che la Monini ha svolto nel passato e i suoi meriti. Nell'editoriale e nelle considerazioni successive si parlava però di futuro, di modelli colturali e culturali per gli anni a venire. Non di passato.
Cordiali saluti e auguri di buon lavoro
Alberto Grimelli

zefferino monini
zefferino monini
03 febbraio 2015 ore 20:43

Caro Sig. Grimelli,
non capisco per quale motivo la Monini che opera da 100 anni nel settore dell'olio di oliva debba far sì che il sig Monini produttore di olive si debba sentire meno produttore del sig x che magari lo fà per diletto o meno frantoiano del sig y che lo fà con l'impianto olio mio.
Sinceramente leggere il passaggio nel suo articolo in cui lei dice che il sig Monini non è un produttore d'olio mi secca un pochino.
Certo non è la mia attività principale,ma la mia passione è tranquillamente paragonabile a quella di molti altri operatori agricoli di questo settore senza considerare quanto mi piaccia alla fine assaggiare ciò che produco e a quanto dicono gli addetti riuscendoci abbastanza bene.
L'essere oggi amministratore di una società che opera nel settore dell'olio di oliva con una forte radice in quello dell'extra vergine la quale si è impegnata a farne crescere la conoscenza ,mi creda,mi fa sentire molto orgoglioso.
Non conosco la sua età ma cinquanta e passa anni fà quando mio padre inserì l'extra vergine nella catena Esselunga,ne io e probabilmente lei eravamo i paladini dell'extra vergine.
La storia di questo settore ha voluto che le imprese Italiane nel secolo scorso siano state le più brave ed operose nel promuovere questo prodotto nel mondo.
La politica e le associazioni purtroppo non sono state altrettanto brave a capire quanto avremmo avuto bisogno di maggiori produzioni per far fronte alle richieste.
Riguardo al core business aziendale e più precisamente di quanto olio produce la Monini e di quanto olio confeziona la Monini,io le posso dire che come azienda riusciamo ad eccellere sia su quello che ci produciamo,come su quello che confezioniamo.
Questo per farle capire che il claim "una spremuta di olive"vale per tutto quello che esce dalla Monini,perchè tale è.
Mi permetterò domani mattina di farle avere il sistema di raccolta veloce(tre piante al minuto) che utilizziamo nella meccanizzata su impianto intensivo tipico Italiano con camion porta bins vuoti e pieni che ci permette di trasformare il frutto in olio in 90 minuti, con un contenuto di alchili di 0,9 e mi creda ho scritto bene è propio meno di 1.
Cordiali saluti
Zefferino Monini

Alberto Grimelli
Alberto Grimelli
03 febbraio 2015 ore 15:55

Gentile Sig. Monini,
più quantità e più qualità, che è lo slogan del documento programmatico del Ceq, è un obiettivo assolutamente condivisibile, al pari di meno tasse per tutti. Bisogna vedere, però, come lo si declina e lo si attua.
Non vedo niente di male nel propugnare il sistema superintensivo, tantomeno c'è da vergognarsene. Una corrente della ricerca scientifica è convinta sia il futuro dell'olivicoltura italiana. Confagricoltura, che è associata al Ceq, lo promoziona senza remore.
Lei sostiene che la mia sia una “libera interpretazione” e una “lettura originale”. Io preferisco definire la conclusione a cui sono giunto il risultato di un'analisi basata almeno su tre punti del passaggio che io le avevo proposto integralmente e da cui lei ha invece estrapolato solo alcune parole.
A beneficio di tutti i lettori ripropongo integralmente il passaggio: “Il nostro sistema produttivo è costretto a competere con sistemi molto più efficienti, perché più automatizzati e con ridotto impiego di manodopera, dove un litro di olio extra vergine può costare anche meno di 2 euro contro i 3 euro della Puglia e i 6-8 euro delle Regioni del Centro Nord. In un oliveto condotto con sistemi moderni, dove la raccolta è fatta velocemente con macchine automatiche, la qualità dell’olio raggiunge facilmente livelli di eccellenza. In olivicoltura, aumentare le rese è compatibile con un aumento della qualità.”
Eccole i tre punti della mia analisi:
1) “... sistemi molto più efficienti, perché più automatizzati e con ridotto impiego di manodopera...”: associo quest'indicazione a un sistema integralmente meccanizzabile o almeno meccanizzabile in gran parte. Le do atto che anche a un sistema intensivo può essere applicata la definizione citata.
2) “... un oliveto condotto con sistemi moderni, dove la raccolta è fatta velocemente con macchine automatiche...”: in questo caso ci si riferisce alla sola raccolta. I termini “velocemente” e “macchine automatiche” rievocano immediatamente, a un tecnico come il sottoscritto, la raccolta in continuo, ovvero con macchine scavallatrici, tipicamente applicate in impianti superintensivi. Le suddette macchine operano effettivamente la raccolta in tempi molto veloci. La definizione calza proprio a pennello, quindi, per gli impianti superintensivi.
3) Riguardo ai “sistemi molto più efficienti” si cita un costo, immagino di produzione, anche inferiore ai 2 euro che mi ha fatto ricordare un mio articolo del 2007 (beh, ammetto che la tecnologia aiuta nelle ricerche: http://www.teatronaturale.it/strettamente-tecnico/l-arca-olearia/3401-gli-oliveti-superintensivi-sono-un-nuovo-modello-di-olivicoltura-tipicamente-industriale-dove-si-perdono-i-connotati-di-tipicitaa.htm) in cui ho trovato il seguente passaggio: “nelle migliori condizioni, senza fattori limitanti, i costi di produzione complessivi stimati da Agromillora sono intorno a 1,5-2 euro per chilogrammo d’olio.” Agromillora è il vivaio spagnolo che ha brevettato le varietà per il superintensivo e che prospera proponendo in tutto il mondo proprio tale modello tecnico-agronomico. Immagino sappia che, invece, che il limite di redditività per gli impianti intensivi spagnoli è stato fissato dal Ministero dell'agricoltura iberico a 2,5 euro/kg. Il costo indicato dal documento Ceq si riferisce, quindi, con maggiore precisione a un sistema superintensivo che intensivo.
Secondo un vecchio proverbio: tre indizi fanno una prova.
Naturalmente lei può continuare a sostenere il punto, nel qual caso le consiglio, per il futuro, come vicepresidente del Ceq, di verificare meglio la terminologia utilizzata nei documenti programmatici, in maniera che risulti propria e corretta, senza lasciare spazi di ambiguità.
Forse non se n'è neanche accorto ma la frase “per quanto mi riguarda se il risultato complessivo dei costi di produzione è più basso ed ho un mercato superiore alla media,avrò un maggior ricavo. Se il mercato fosse a valori molto bassi per un'eccedenza produttiva, probabilmente riuscirò a coprire i costi.” è tipicamente afferibile a una logica di competizione di prezzo. Lo stesso titolo del documento del Ceq: “cooperare per competere”, rieccheggia la logica della competizione. Immagino non ignori il Paradosso di Bertrand, anche noto come la trappola della competizione del prezzo, che afferma che l'abbassamento dei costi porta a concorrenza e a un abbassamento dei prezzi, facendo scendere il prezzo al livello della concorrenza perfetta. Nè più né meno, tra l'altro, di quanto accaduto negli ultimi anni nel mercato oleario, dove i prezzi, rispetto a un ventennio fa, si sono effettivamente dimezzati. Ecco perchè non mi convince molto la sua asserzione, in particolare sui maggiori ricavi, specie per olivicoltori e frantoiani.
Operare in una logica di differenziazione significa invece spostare il campo di gioco, per tentare di giocare un'altra partita, in cui la logica della competizione si attenui o si annulli (vedi Dop/Igp).
Veniamo dunque alla sua esperienza di imprenditore, nella Monini Spa. Non ho difficoltà ad ammettere che suo padre Giuseppe fu un innovatore del settore, né a riconoscere le sue doti di lungimiranza. Questo nulla mi dice, però, su come sta operando, ora, la Monini, sotto la sua guida. Per comprenderlo basterebbero davvero pochi dati: qual'è la percentuale (in volume e in valore) dell'extra vergine base (olio comunitario) rispetto all'extra vergine premium (100% italiano, Dop, bio...)? Se proprio volesse essere preciso potrebbe fornirmi questa indicazione per il mercato italiano e quello estero? Giusto per capire se per Monini il core business è l'olio comunitario o quelli premium.
Non le ho mai detto che non dovrebbe utilizzare le sua attività agricole a fini promopubblicitari. Le ho detto, e glielo ripeto, che mettere a confronto, anche solo in un concorso, una realtà che ha finalità promopubblicitarie, che quindi può andare anche in perdita, e un'azienda, che invece deve fare utili, non è né equo né etico.
Infine. Confrontarsi con altri comparti è sempre utile e bello, ma sono sicuro che anche nel vostro ufficio marketing e pubblicitario operino persone capaci e preparate, almeno tanto quanto suo zio Nello che nel 1973 emerse grazie allo slogan “una spremuta di olive”. Veramente intuitivo ed efficace, anche se mi fa sorgere un'altra domanda: quanto è l'olio che effettivamente “spremete” nelle vostre aziende agricole e quanto è quello che invece “miscelate” nei vostri impianti di confezionamento?
Mi scuso per essermi dilungato così tanto ma le sue obiezioni meritavano una trattazione completa e inequivoca.
Cordiali saluti
Alberto Grimelli

zefferino monini
zefferino monini
02 febbraio 2015 ore 20:59

Caro Grimelli,
la sua lettura mi sembra piuttosto originale quando parla di dichiarazioni in merito a rendere più efficiente il sistema produttivo Italiano nel documento programmatico del consorzio CEQ.
Infatti nel passaggio in cui si dice "aumentare le rese è compatibile con un aumento della qualità" viene da lei letto come invito al super intensivo Spagnolo. Decisamente una sua libera interpretazione perchè lo si può benissimo fare con sistemi più idonei alle nostre varietà autoctone utilizzando nuovi sistemi rispettosi della pianta,del sesto di impianto,del metodo di raccolta(con bins e solo così) in forma organizzata nel processo di trasformazione ed avere un'ottimo risultato.
L'idea che tutto questo debba servire per far calare il prezzo,è anche questa una sua libera interpretazione perchè per quanto mi riguarda se il risultato complessivo dei costi di produzione è più basso ed ho un mercato superiore alla media,avrò un maggior ricavo.Se il mercato fosse a valori molto bassi per un'eccedenza produttiva,probabilmente riuscirò a coprire i costi.
Questa ritengo sia una logica che deve valere tanto per il piccolo produttore quanto per il grande.
Da qui poi passare alla valorizzazione del prodotto è tutta un'altra storia che sarà diversa in base alle peculiarità di ciascun operatore.
E qui siamo arrivati agli assortimenti che lei mi banalizza dicendo che la Monini ha nel portafoglio una profondità di offerta fra 100% Italiano,DOP,biologico etc etc per poi farsi comprare l'extra vergine base.
Ebbene per la Monini è successo l'esatto contrario,perchè noi vendevamo da sempre l'extra vergine commerciale e ancora prima l'olio di oliva e grazie a questo 40 anni fà mio padre si spinse su un olio che fosse più fruttato e poco dopo uno che fosse regionale.
Tutto questo in tempi non sospetti.
Oggi a distanza di quattro decenni posso dire che la Monini ha dato un'ottimo contributo per affermare sui mercati oli di standard più alti con una buona coerenza di valore di prodotto.
Per quanto riguarda l'azienda agricola non vedo il perche non dovremmo usarla a scopo promopubblicitario,avendole e utilizzandole per produrre oli eccellenti che produciamo con la stessa passione che mette qualsiasi produttore che ama fare questo mestiere.
Di sicuro andrò a vedere l'intervista al signor Gaia perchè sono convinto che da quel mondo abbiamo molto da prendere soprattutto la parte emozionale che aimè non riusciamo poi all'atto del consumo a far vivere come loro.
Buona serata
Zefferino Monini

Maurizio Pescari
Maurizio Pescari
02 febbraio 2015 ore 17:49

Vino ed Olio.
Due prodotti drammaticamente diversi, sin dal momento in cui da prodotto agricolo si trasformano in prodotto commerciale.
Alcuni pensano che l'olio possa seguire le stesse strategie di marketing del vino: sbagliato.
L'unica cosa che l'olio può fare meglio del vino è la valorizzazione del territorio, vero elemento che mette da una parte gli industriali e dall'altra gli artigiani, facendo quindi la differenza.
Nel Vinoa la differenza l'ha fatta il Metanolo, che sulla pelle di decine di persone ha insegnato a bere chi beveva vino tanto per bere, ed a produrre a chi pensava alla quantità e non alla qualità, a suon di bottiglioni da due litri.
Olio e Vino sono diversi al punto che il vino ha voluto cambiare strada, e c'è riuscito, dando valore al lavoro dei piccoli vignaioli, costringendo i grandi a far finta di essere piccoli, acquisendo Tenute di decine di ettari per coprire la facciata, ma continuando a commercializzare milioni di ettolitri in tutto il mondo.
Per l'Olio invece si vuole che NULLA CAMBI, che non ci siano luci ad illuminarne il mercato, profumi a delineare la qualità.
Tutto il resto è poesia. Tutto il resto è solo uno spot televisivo.

Alberto Grimelli
Alberto Grimelli
02 febbraio 2015 ore 12:41

Gentile Sig. Monini,
la invito a rileggersi l'articolo: “Monini è anche vicepresidente del Ceq che, a fine dicembre 2014, ha proposto l'importazione in Italia del sistema superintensivo spagnolo, tout court.”
Ceq che... Ceq il quale, quindi.
Immagino abbia letto il documento programmatico proposto dal Ceq, prima di Natale, di cui le ripropongo il passaggio: “Il nostro sistema produttivo è costretto a competere con sistemi molto più efficienti, perché più automatizzati e con ridotto impiego di manodopera, dove un litro di olio extra vergine può costare anche meno di 2 euro contro i 3 euro della Puglia e i 6-8 euro delle Regioni del Centro Nord. In un oliveto condotto con sistemi moderni, dove la raccolta è fatta velocemente con macchine automatiche, la qualità dell’olio raggiunge facilmente livelli di eccellenza. In olivicoltura, aumentare le rese è compatibile con un aumento della qualità."
Questo passaggio, per me, è un invito al superintensivo spagnolo, pure non citato esplicitamente. E' anche un'”accusa” all'insostenibilità delle quotazioni della nostra olivicoltura, paragonata a quelle di altre realtà e nazioni dove l'olio costa anche meno di 2 euro.
Detto in soldoni: se volete vendere bisogna abbassare i prezzi, portandoli più vicini a quelli dei concorrenti. Si può fare col superintensivo.
Per me questo significa puntare su una logica di competizione di costo.
So anch'io, naturalmente, che Monini, come altre aziende di confezionamento italiane, ha nel proprio portafoglio prodotti Dop, 100% italiano, biologico ecc. So anche, in base ai dati Assitol, che il core business di tutte le industrie olearie è l'extra vergine standard, quello comunitario tanto per intendersi, con quote dell'80% o più.
Avere profondità di offerta sul piano commerciale è ormai un'esigenza inderogabile.
Detto in soldoni: ti offro il 100% italiano, o la Dop Umbria, ma mi compri anche l'extra vergine base.
Anche in questo caso la logica, per me, è ben spiegata dal documento del Ceq di cui riporto il seguente estratto: “Le Dop e l’unica Igp, hanno costituito e costituiscono tuttora un’alternativa per sottrarsi ai bassi prezzi di mercato dell’olio extra vergine e per differenziarsi, tuttavia sono un segmento, per loro stessa natura eterogeneo, sul piano quantitativo e qualitativo, con una varietà enorme di nomi e di vincoli produttivi, che lo rendono più utile sul piano dell’immagine e meno incisivo sul piano dei volumi."
La differenziazione, insomma, non si può basare sul territorio (Dop/Igp) che espone a eccessive criticità.
Queste sono le posizioni espresse dal Ceq, di cui lei è vicepresidente, e che, immagino, condivida.
Infine, non è il primo confezionatore che ha e pubblicizza con forza le proprie aziende agricole. Realtà modello, lo ammetto senza remore. So anche che, spesso, queste aziende agricole hanno bilanci in rosso, ripianati agevolmente dall'attività di confezionamento.
Potersi permettere di andare in perdita, o utilizzare l'azienda agricola per mero scopo pubblicitario e di marketing, è un po' diverso dal dover campare con l'attività produttiva. Credo che lo possa concedere.
Per questa ragione ritengo che non sia nè equo né etico che il suo olio, benchè “prodotto e confezionato da”, possa mettersi in competizione, quindi a confronto, con quello di olivicoltori e frantoiani.
A ognuno il suo, prima di tutto la propria identità.
Non mi farò scrupolo di contattarla se ne avrò bisogno, non si preoccupi. Le posizioni, però, come ho potuto più analiticamente illustrarle qui, mi sembrano piuttosto chiare. Per scrivere l'editoriale in questione non ho sentito neanche Angelo Gaja ma le assicuro che la lettura dell'intervista su Repubblica.it è stata illuminante, gliela consiglio.
Cordiali saluti
Alberto Grimelli

zefferino monini
zefferino monini
02 febbraio 2015 ore 11:27

Egregio sig Grimelli,non penso di conoscerla di persona ne di aver mai avuto un colloquio con lei ed aver potuto parlare del mondo dell'olio di oliva e della mia visione per il futuro di questo settore.
Come spesso accade,chi per lavoro in questo mondo scrive è naturalmente portato a fare del populismo per riuscire ad avere una maggior platea,visto che siamo molti di più i sofferenti che i godenti di questo settore.
Come avrà notato mi sono messo fra i sofferenti e non a caso.Deve sapere che le mie aspettative da questo settore sono molto alte perche oltre la parte filosofica del prodotto che mi appartiene per sensibilità e senso di appartenenza al nostro territorio essendo la terza generazione di una famiglia che opera in Italia e ama l'Italia vorrei il meglio per il nostro paese.
Per farle capire ,quando parla di modernizzazione,lei dice di avermi sentito dire che io vorrei fare del super intensivo alla spagnola con varietà spagnole,quando nei 60 ettari rinnovati in Italia e nei 300 ettari neo piantati in Australia ho fatto un intensivo con varietà italiane con ulivo tipico a vaso policonico.
Inoltre andando contro le più semplici regole del mercato che dicono di dare al consumatore ciò che più gli piace,tipo un'olio dolce,la nostra azienda è l'unica fra le grandi del settore che si è spesso e volentieri spesa a favore dell' amaro e del pungente con investimenti in campagne pubblicitarie informative.
Le vorrei ricordare anche che i nostri oli prodotti e confezionati (quando dico prodotti vuol dire che si parte dalle olive e non solo molite ma coltivate da noi)dalla Monini si sono distinti nelle competizioni piu importanti d'Italia confrontandoci con i migliori produttori.Comunque quando vorrà scrivere qualcosa che mi riguarda su mie opinioni in merito al settore non esiti a chiamarmi,sarà per me solo un piacere poter dare un mio contributo che per indole non sarà integralista ma un contributo equilibrato e perchè no interessato.
Cordialmente



Alberto Grimelli
Alberto Grimelli
02 febbraio 2015 ore 10:22

Il tema non è il sì o il no all'innovazione.
Non è il sì o il no agli impianti superintensivi.
Il tema, un po' più generale o forse filosofeggiante, è come conciliare identità e innovazione.
Torniamo un passo indietro.
L'olio extra vergine di oliva è un bene che, potendo essere scambiato, assume i connotati di merce.
Due le essenziali strategie per poterlo vendere:
ponendolo a scaffale a un centesimo meno del concorrente
rendendolo una cosa diversa da quella venduta dal concorrente, quindi non direttamente confrontabile
Nel primo caso entra in gioco la competizione, nel secondo la differenziazione.
Lasciando da parte la logica della competizione sui prezzi, addentriamoci su quella della differenziazione.
La differenziazione si può basare su caratteri oggettivi e misurabili (es polifenoli), su caratteri territoriali (es Dop/Igp), su caratteri di innovazione (es olio denocciolato)... Questi caratteri identificano, cioè letteralmente danno identità, al prodotto.
Vi sono caratteri identitari che implicano comunque una logica di competizione. Un'innovazione, prima o poi, verrà copiata, quindi occorrerà nuovamente innovare per stare al passo. A un disciplinare di produzione e parametri qualitativi stringenti si può sempre opporre un altro disciplinare ancor più restrittivo. E così via.
Vi sono caratteri identitari non competitivi, come quelli territoriali e culturali. La Toscana con le sue colline e la sua cultura (lasciatemi un pochino di campanilismo) non si può copiare. L'utilizzo di questo tipologia di carattere implica molto equilibrio e politiche attente. Si rischia infatti facilmente di cadere nella retorica e nel tradizionalismo, ovvero la conservazione, tout court, dell'esistente. Ad esempio, visto che nel passato si raccoglievano a mano le olive, è necessario continuare a farlo. E' altrettanto pericoloso, però, cadere nel modernismo, ovvero nella tentazione di copiare modelli (produttivi, economici o sociali) che, portati nella realtà territoriale, la snaturerebbero. Ad esempio è ancora toscano l'olio di Picual e Arbequina, ancorchè prodotto in Toscana?
Come trovare il punto di equilibrio, dunque? Occorre capire quali sono gli elementi percepiti come fortemente identitari da produttori e consumatori. Quei caratteri devono essere colonne portanti intoccabili. Minare una di queste colonne, infatti, significa minare la stessa identità, ovvero la base della differenziazione del prodotto.
Probabilmente, non ho dati a supporto, quindi prendete le mie parole col beneficio del dubbio, scopriremmo che la raccolta a mano è un elemento identitario secondario, quindi passibile di innovazione, mentre quello varietale, ovvero la possibilità di usare cultivar estere, no.
E' quindi errato mettere in contrapposizione identità e innovazione. Possono tranquillamente coesistere, senza prevaricarsi.
Perchè è stato considerato così scandaloso, quasi più all'estero che in Italia, che nel Brunello potessero andare a finire uve di vitigni “miglioratori” internazionali come Cabernet e Merlot? Semplicemente perchè il Brunello è Sangiovese, punto. E' un carattere identitario intoccabile. Se lo si scalfisce viene meno la stessa ragion d'essere del Brunello. Questo, ovviamente, non significa che i vigneti non possano essere raccolti con le vendemmiatrici o che in cantina non possano venire utilizzati lieviti selezionati.
Come ha ben spiegato Angelo Gaja, forse in ragione della sua sensibilità di produttore, l'identità può essere raccontata, illustrata e spiegata (si chiama story telling nel marketing), creando valore aggiunto, andando a incontrare i consumatori che la ricercano, la vogliono e sono disposti a pagarla.

pasquale di lena
pasquale di lena
01 febbraio 2015 ore 21:51

anche filosofeggiare, gentile Enrietta, può servire nel momento in cui le idee non sono chiare. Lo so che la programmazione non va più di moda, ma senza programmazione si continua a navigare a vista e, di tanto in tanto, a sbattere contro qualche scoglio, com'è successo nel passato e, in particolare nell'annata 2014.
Una nuova programmazione, s'intende, prima di tutto per recuperare il vuoto di quella che manca da qualche decennio, sostenuta, soprattutto, da un'attenta strategia di marketing.
Il mondo dell'olivicoltura, con tutti i suoi limiti, non è fermo e, per fortuna, ci sono sempre meno consumatori che non vogliono più l'olio del passato. Bisogna dire grazie a quanti da anni comunicano i caratteri della qualità dell'olio, ai frantoiani, agli olivicoltori che, anche grazie alle moderne attrezzature di raccolta, promuovono la qualità e, per onestà, sono i soli a farlo diversamente da chi punta tutto e solo sulla quantità, Sinceramente non vedo un ritorno al passato ma sempre più una consapevolezza del consumatore che, certo, ha sempre più bisogno di informazioni per definire meglio il suo rapporto con l'olio. Anzi, spero presto, con gli oli, nel momento in cui ci si rende conto del valore della biodiversità. Se per lei, Gentile sig. Enrietta, queste, come la necessità di una ristrutturazione degli oliveti non con i nuovi impianti super intensivi di marchio spagnolo, non sono proposte devo dire che la critica di cui parla è solo e tutta sua. Anche i discorsi, mi creda, possono tornare utili a chi vuol sapere e capire. Mi rendo conto che a chi pensa di sapere e di aver capito tutto , servono solo ad annoiare.

Sergio Enrietta
Sergio Enrietta
01 febbraio 2015 ore 20:00

No all'intensivo, no alla modernizzazione dell'olivicoltura, no alla meccanizzazione, tutto come in passato, con olio al meglio ossidato, quando non rancido, perché quello era l'olio del passato.

Stiamo perdendo posizioni ogni anno, importiamo il doppio di quanto consumiamo, la gente non trova utile comprare il cosiddetto extravergine garantito dalla pletora di angeli custodi mantenuti a spese del contribuente, e del povero consumatore, e si continua a dire che come andavamo andava bene, che non si deve cambiare niente, al più farlo con "programmazione", quale, quella di chi ci ha portati a questo punto?

Non sarebbe più utile fare proposte precise e dettagliate, nonché attuabili, magari anche dal proponente, invece di filosofeggiare?
E al passaggio criticare il sistema che si è criticabile, però ricordiamoci che sta sfamando il pianeta.

Senza contare che quest'anno l'olio bevuto dagli Italiani e non solo, verrà dalla tanto bistrattata Spagna e compagnia.

Questi sono al momento i fatti, non dico assolutamente che mi vanno bene, però invece di solo criticare non sarebbe il caso di proporre e fare?

Le cose cambiano operando, non facendo interminabili discorsi.

pasquale di lena
pasquale di lena
01 febbraio 2015 ore 11:42

mi sono già espresso contro le semplificazioni di chi vuole paragonare l'olio al vino e credo che l'articolo spieghi bene che non ci sono paragoni dato che i due mondi sono diversi. Non sono d'accordo con chi intende il bisogno di ristrutturazione di una parte dell'olivicoltura italiana con la sostituzione degli impianti tradizionali in super intensivi con marchio spagnolo. Un ragionamento che crea solo confusione. Non lo sono perché tutto ciò che in agricoltura è arrivato come intensivo e super intensivo, ha prodotto danni irreparabili sotto l'aspetto del reddito del coltivatore e della salute dell'ambiente. Ha favorito solo l'industria, da quella meccanica a quella chimica, e la grande distribuzione negando la qualità o riducendola ai minimi termini. Nel caso dell'olivicoltura oltre alla qualità viene negato anche il ricco patrimonio, tutto italiano, della diversità che è merito soprattutto del territorio e dei suoi valori storico - culturali, ambientali senza dimenticare la professionalità dei nostri olivicoltori. Il super intensivo, inoltre, non pensa al domani anche perché il suo domani è limitato a pochi anni. C'è di più, esso trasforma l'agricoltura contadina in agricoltura industrializzata, che è poi quella che fino ad ora ha affamato, in Italia come altrove, i coltivatori e, in mancanza di una programmazione, ha messo in crisi l'agricoltura con la conseguenza di un suo crescente abbandono.

Sergio Enrietta
Sergio Enrietta
31 gennaio 2015 ore 22:38

Ricordo quando in gioventù (almeno 40 anni fa) sentivo commenti sfavorevoli verso alcuni vini considerati popolari di gusto plebeo, quando nessuno che volesse darsi un tono, li avrebbe ordinati ad alta voce in certi ristoranti, e credo questi neppure li tenevano.

Eppure chi ci ha creduto e ha insistito nel proporre, valorizzare, migliorare, ha vinto e oggi sono scelti con orgoglio, (meritato) tra le elites.

Quando tre anni fa ho prodotto il mio primo olio, amarissimo sono stato sorpreso negativamente pure io.
Avevo operato bene, i presupposti per un olio eccelso vi erano tutti, eppure l'olio era "imbevibile".

Quello che pieno di entusiasmo avevo regalato, salvo poche eccezioni ebbe forte e deludente insuccesso.

E' bastato però aspettare qualche mese per cominciare a intravvedere e sentire le caratteristiche del prodotto di successo.

Al secondo anno ho atteso qualche mese per riprendere gli omaggi frutto delle mie aspettative in campo olivicolo, ho così praticamente eliminato le delusioni, al contrario, sono cominciati ad arrivare riconoscimenti di apprezzamento proprio da coloro che un anno prima più erano delusi.
Io stesso ho cominciato ad apprezzare l'amaro fino a snobbare quelli dolci.

Benché ad ogni anno abbia triplicato la produzione (l'oliveto giovanissimo sta andando a regime) forse anche perché regalo, sta il fatto che ora devo distribuire una moltitudine di spiacenti non ne ho più.

Sono bastati tre anni per cambiare i gusti di decine di conoscenti che non saranno mai più come prima, ora hanno assaggiato e direi, capito che tra un olio industriale e uno diciamo pure artigianale, vi è grandissima differenza.
Anche per i cosiddetti "dolci" da varietà di olive con caratteristiche adatte che produco a parte.

Da ciò, io deduco che in risposta alle tre ultime righe dell'articolo, propendo per l'incapacità dei produttori di far apprezzare le vere QUALITATIVE proprietà dell'olio da olive, più per manco di vera qualità, che per manco di capacità dialettico informativa.
Abbiamo ancora tantissimo spazio di miglioramento, per fortuna.

Nessuno mi toglie dalla testa che l'olio di qualità ha uno splendido futuro gustativo e paesaggistico, a patto che il paesaggistico non venga trascurato, nessun altro prodotto ha altrettanto stretto legame, separali e finisci nell'anonimato.

In ogni caso la porta della qualità è stata socchiusa, qualcuno ha visto oltre, non sarà più possibile richiuderla, neppure con suadenti messaggi pubblicitari che pescheranno ancora ampiamente, ma quelli dal palato fine non abboccheranno più.

Emilio Conti
Emilio Conti
31 gennaio 2015 ore 20:03

Il vino ha quantità, qualità, reddito e si può permettere anche un approccio edonistico culturale.
L'olio da olive non ha quantità, non ha qualità e non ha reddito, cosa dire.
Spero che la scorsa campagna abbia tolto molte fette di prosciutto davanti agli occhi. Investire per produrre e per far reddito poi possiamo raccontare. Oggi l'unico sistema reddituale è il superintensivo , che produce anche oli amari e piccanti. Redditualità certa con quantità e qualità.

Pier Sante (nino) Olivotto
Pier Sante (nino) Olivotto
31 gennaio 2015 ore 17:03

Grande Alberto Grimelli. Sottoscrivo ogni parola di questo articolo. In Italia manca il DNA manageriale per vincere sulla quantita' globale che richiede esasperata eccellenza operativa su scala mondiale. E' stato dimostrato nelle chimica, farmacuetica e buoni ultimi automobili e informatica da cui provengo.
Sulla qualita, inclusa quella salutistica, che deriva dal profondo rispetto e conoscenza della natura non abbiamo rivali perche' adoriamo il cibo e siamo ospitali come nessun altro popolo al mondo :) .

Roberto Pierantoni
Roberto Pierantoni
31 gennaio 2015 ore 15:36

il problema non è tanto l'importazione delle olive , quanto l'impostazione di olio estero trasformato tramite scambi cartacei in olio Italiano.

Roberto Pierantoni
Roberto Pierantoni
31 gennaio 2015 ore 15:34

Innanzi tutto, occorrerebbe fare opera di divulgazione della cultura olearia, come è stato fatto per il vino, organizzare stage gratuiti in cui si ins3egni ad apprezzare le qualità organolettiche dell'olio, ma senza essere fondamentalisti, l'amaro e il piccante sono delle caratteristiche fondamentali per noi assaggiatori, ma non altrettanto per i consumatori (attuali) occorre introdurre stage dove queste caratteristiche siano peculiari ma non fondamentali, meglio divulgare fragranza e freschezza. la raccolta a mano delle olive ormai è anacronistica, si possono usare tecniche altrettanto garanti della qualità ma molto meno costose. Quindi ben vengano gli impianti intensivi, senza abbandonare una moderna olivicoltura di qualità.

Angelo Frascarelli
Angelo Frascarelli
31 gennaio 2015 ore 12:07

Vigneti meccanizzabili dalla potatura alla raccolta, in cui i conti economici siano positivi. L'innovazione è decisiva. Il superintensivo è solo una delle innovazioni, che presenta vantaggi e svantaggi. Senza meccanizzazione, l'olivicoltura è morta.
Il sapore amaro e piccante è considerato di "qualità" per una frazione infinitesimale di consumatori. Come i formaggi salati e duri (non li consuma più nessuno). L'olio di oliva ha una grande potenzialità economica: non lo facciamo morire nella torre d'avorio dei difensori dell'amaro e del piccante.

Angelo Ferricchio
Angelo Ferricchio
31 gennaio 2015 ore 10:35

Cosa intende per "radicale ristrutturazione degli oliveti": superintensivo?
Cosa intende per "servire il consumatore": eliminare il sapore amaro e piccante?

Angelo Frascarelli
Angelo Frascarelli
31 gennaio 2015 ore 06:40

Il mondo dell'olio è rimasto indietro perchè gli imprenditori oivicoli:
1) non fanno i conti economici;
2) non conocoscono il significato della parola "qualità".
I conti economici sono fondamentali per fare le scelte e si capirebbe che bisogna operare un radicale ristrutturazione degli oliveti.
La "qualità" è soddisfazione del cliente; il primo ruolo dell'imprenditore è assecondare il consumatore (un prodotto è di qualità se si vende) e/o comunicare la qualità non percepita (l'olio ha una potenzialità enorme in questa direzione).
Il consumatore è il re, dice Michele Ferrero. Nell'olivicoltura invece il produttore si considera il re.
Conti economici e servire il consumatore: questo è la direzione.