Editoriali
Ma l'olivicoltura italiana ha ancora un valore?
16 gennaio 2015 | Pasquale Di Lena
Con la terribile raccolta delle olive del 2014 i nodi sono arrivati al pettine di un comparto che ha bisogno ora di scioglierli tutti. Nodi propri e nodi ereditati dalla crisi dell’agricoltura, che si sono formati e ingrossati nel corso di tanti anni a causa di numerosi e pesanti limiti politico – amministrativi, oltre che culturali.
C’è chi ha pensato di scioglierli puntando tutto sulla possibilità di raccogliere olivo e olio in tutto il Mediterraneo affidando tutto alla grande capacità di blending dell’industria olearia italiana e, in seconda battuta, indicando al mondo dell’olivicoltura la scelta degli impianti super specializzati spinti dalla Spagna che, a loro parere, dovrebbero fare i miracoli. Altro che miracoli, così si distrugge solo quel poco che è rimasto e che serve per ripartire!
Il pensiero diffuso fino ad ora è tutto rivolto alla quantità, lasciando a quel poco che resterà dell’olivicoltura tradizionale, il compito di fare la qualità. Uno spiraglio di luce sui produttori e i territori italiani che riusciranno a rimanere ancora salvi dalla cementificazione. Per esempio, lasciare alle Dop e all’unica Igp il compito di rappresentare le produzioni locali da mettere a disposizione di quei pochi fortunati amatori dell’olio che sanno del valore e del significato del marchio Dop e Igp.
Tutto rientra nella logica propria di quelli che si sentono padroni del mondo, o, comunque, del loro mondo, che è quella della semplificazione che porta all’omologazione e all’uniformità. L’arte del momento, soprattutto da parte di chi, sposando la moda del neoliberismo, pensa solo al profitto e alla quantità come unico elemento di competizione che può vincere sul mercato.
Questa loro arte di semplificare il mondo, lo stesso pianeta, e di trasmetterlo a chi il mondo lo governa, sta tutto nella potenza del denaro, accumulato e da accumulare!
Dentro tutto questa logica della semplificazione ci sono i disastri, le macerie, i pericoli che il mondo vive ogni giorno e, ogni giorno, sempre più.
L’Italia olivicola, quella delle colline e delle aree interne che, bontà loro, possono anche rimanere, ma solo come elemento decorativo, è solo un esempio della logica della semplificazione con la quantità unico obiettivo, dovunque e comunque si possa raccattare.
L’olivicoltura con la sua agricoltura contadina, quella che ha dato un fondamentale contributo alla notorietà e all’immagine di qualità che oggi l’olio italiano vive nel mondo, e, c’è di più, allo stesso senso e significato “qualità” dell’olio di oliva, fino a definirne i caratteri e renderli punti di riferimento di tutti gli oli provenienti dalla frantumazione delle olive.
Contro la tentazione della facile semplificazione serve davvero avere chiaro il quadro rappresentativo della nostra olivicoltura e della nostra agricoltura fondamentalmente contadina.
La sola possibile da noi e, come tale, da rafforzare, e non da cancellare con l’idea di una sua industrializzazione, se si vuole dare una continuità a questo settore primario e parlare ancora di agricoltura. Cioè dell’attività che da sempre dà cibo e, che da sempre, nutre l’uomo, anche con il suo patrimonio di cultura, storia, tradizioni come pure di ambienti e paesaggi, che vanno a definire e offrire la qualità e non solo, la diversità .
Ecco, diversità, quale valore aggiunto della qualità, che l’olivicoltura italiana, con il suo ricco patrimonio di biodiversità, può mettere in campo, nel momento della globalizzazione dell’olivo, come una carta di sicuro vincente. Un patrimonio di biodiversità olivicola che raddoppia quello complessivo del resto dei paesi olivicoli, costruito da una storia antica dell’attività agricola, ma, soprattutto, dai suoi differenti territori, che già ora ci vede primeggiare e fare la differenza sui mercati. Basti pensare soprattutto ai successi che vivono le nostre indicazioni geografiche, Dop e Igp, nonostante il vuoto della comunicazione del valore e del significato di un marchio di garanzia del consumatore – valido, oltretutto, per tutte le eccellenze europee - grazie al rispetto del disciplinare di produzione e i relativi controlli.
Un aspetto, quello della biodiversità, che diventa decisivo per competere, sia con le quantità che con le qualità offerte dal mercato.
Bisogna partire da qui, dalla qualità e dalla diversità che la nostra olivicoltura è capace di mettere a disposizione del consumatore più esigente, e non dalla quantità, se si vuole ridare all’olivicoltura italiana la motrice più adeguata e, così, dare una risposta alla pesantezza della situazione prodotta da un andamento climatico sfavorevole che ha caratterizzato la raccolta delle olive 2015.
Non servono le semplificazioni, le facili scorciatoie perché non portano da nessuna parte e, soprattutto, perché impercorribili domani, quel domani che non è nella natura e nella mente del denaro. Serve, invece, fare una respirazione a bocca a bocca al mondo dell’olivicoltura, dare spazio a un dialogo e ciò è possibile solo se c’è il rispetto reciproco dei protagonisti del confronto. Soprattutto la consapevolezza che, quando si parla di territorio, del luogo che contiene ed esprime un insieme di valori e di risorse, si sta parlando di un bene comune e non di proprietà di qualcuno.
Sta alla regia attenta dell’istituzione pubblica far capire il significato di “bene comune” per non dare spazio a interessi personali e pensare alla propria terra.
Il dialogo, e solo il dialogo, è in grado di dare all’olivicoltura italiana la possibilità di continuare, con la predisposizione di un piano e di una strategia di marketing, a esprimere meglioil suo ruolo e a far capire che essa è, ancora una volta, vincente sul mercato, per la qualità e la diversità che riesce a esprimere con dovizia di particolari.
Questo fa dire che anche chi, curando soprattutto la quantità, ha svolto un suo importante ruolo nella ricerca e conquista dei mercati e di milioni o miliardi di consumatori, non può, ora più che mai, fare a meno della motrice qualità e diversità. Si sa che il mercato globale ha bisogno di quantità, ma dimenticare che il valore aggiunto di un successo vissuto che ci ha sempre visto primeggiare nel mondo con le professionalità espresse dai nostri confezionatori, stava nella qualità e nell’immagine del nostro Paese. Tant’è che le nostre industrie olearie, fra le più conosciute al mondo, da qualche anno sono patrimonio della Spagna.
Pensare bene al proprio ruolo ma anche al ruolo svolto e che possono svolgere gli altri per fare squadra, sapendo che distinguersi con le peculiarità a disposizione vuol dire farsi notare e, non solo, andare al superamento delle confusioni vissute fino ad oggi sul mercato del consumo.
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Accedi o RegistratiSergio Enrietta
21 gennaio 2015 ore 17:11Parole sante almeno per me, quelle dell'ultima riga circa il silenzio "oleario", infatti perché rompo con le mie fisse, quando non riesco ad accontentare tutti coloro che vorrebbero uno dei miei oli di oliva, io il problema l'ho risolto, con fatica, impegno, poesia, e oserei dire intelligenza, nel capire le straordinarie possibilità che l'olivo può dare, anche andando controcorrente, quindi con questo mio ultimo intervento, saluto caramente e buona fortuna a tutti.
Sergio Enrietta
Domenico Musicco
21 gennaio 2015 ore 15:20... oggi, prove generali per il fritto di paranza in olio extravergine di oliva monovarietale di "Coratina" e sgagliozza barese !!
Alcuni privilegiati assaggiatori : "che bòn che sè !!! Ghè sboccio !"
.... e domani sera la Serata !
pasquale di lena
21 gennaio 2015 ore 01:06Anche la poesia è un mio punto di vista privilegiato come il territorio. entrambi mi permettono di capire con molta chiarezza le scelte da fare.
Oggi più che mai mi mettono pensiero quelli che hanno nella praticità il loro punto di vista, visto che a furia di praticoni il mondo sta andando a rotoli, con l'Italia in anticipo.
Non a caso i praticoni scelgono la quantità comunque, mentre i poeti si affidano alla qualità ed alla diversità quali priorità di un piano olivicolo e di una strategia di marketing capace di aggredire il mercato e di guidare il consumatore alla scoperta del suo olio, o dei suoi oli, per dare una risposta al bisogno di salute e di gusto, in pratica di storia e di cultura, che l'olio esprime in abbondanza grazie a una sua dote particolare, che è quella del silenzio sia quando scorre che quando è quieto.
Sergio Enrietta
20 gennaio 2015 ore 10:37Infatti, proprio TUTTO il territorio nazionale, anche secondo me, è l'arma vincente per la qualità e diversità varietali redditizie per la coltivazione dell'olivo.
Fin qui almeno qualcuno la pensa alla stessa maniera.
Ho scritto qualcuno, perché in realtà vi sono territori diciamo "eletti" dalla storia a protagonisti dell'olivicoltura, sono proprio da questi territori che arrivano le maggiori lamentele, moltissime condivisibili, ma altre del tipo asserire che ciò che fanno gli altri minoritari sarebbe trascurabile o addirittura tutto falso, non credo aiuti molto a capire dove sta il problema.
Tanto per capirci, prendo l'esempio fatto in precedenza circa il produttore del cancello:
In tutto il mondo quando un'azienda non riesce a continuare per manco di competitività o si rinnova e apporta le correzioni necessarie o chiude.
Nel caso dell'olivicoltura, ma stesso discorso varrebbe per il turismo. ecc, invece non si pensa neppure di cercare di capire in casa, ciò che non va, si è sempre fatto così e ai clienti deve andare bene così, la patria dell'olio siamo noi, e questo è il prodotto, quindi, queste sono le condizioni.
Continuiamo così? o cerchiamo di conquistare i palati dei consumatori?
Ovviamente quanto su, vale solo per coloro che non riescono a piazzare degnamente il loro prodotto.
Io sono certo che la via presa dalla vite, col vino circa 30/40 anni fa, senza assaggiatori di stato, e altre amenità del genere, è possibile anche per l'olivo e il suo olio.
Certo non andremo lontano con giudizi di "erbaceo, pomodoro verde, ecc, " oppure imbragature bloccate da enti e pletora di competenti che a spese dello stato campano, e sono pure convinti che dalle loro menti sortisca la soluzione che farà si che nella ipotetica bottega sparsa per il mondo, vi siano in bella mostra, a prezzi conseguenti, veri oli anche Italiani, dagli svariati gusti, con clienti che li cercano e li gustano con soddisfazione.
Dirò di più, con aiuti di stato o senza, se non ci riusciremo, non sarà che l'ennesima prova della NOSTRA incapacità di cogliere un frutto che la natura ci ha messo in prima posizione per la raccolta.
Sono certo di aver molto turbato con queste mie sortite sicuramente in buona parte errate, però l'INCREDIBILE declino dell'olivicoltura ma non solo, anche economico e culturale, che stiamo avendo, ha pochi casi al mondo, e sono certo dovrebbe richiedere drastiche correzioni, e di conseguenza, turbare molto di più.
Davanti a un tale disastro, in genere si cambiano generali e colonnelli o no?
pasquale di lena
19 gennaio 2015 ore 20:02 I punti di vista, come si sa, possono essere tanti, si tratta solo di precisarli per evitare di saltare da un punto all’altro senza rendersene conto. Il mio punto di vista è il territorio, quale contenitore di risorse e di valori, che ho provato a sottolineare e spiegare nell’articolo sopra riportato e oggetto di commento.
Avere il territorio come punto fermo e, nello stesso tempo, di riferimento dei risultati dell’analisi di un fatto o di una realtà, mi permette di capire meglio qual è la soluzione più giusta e, anche, l’evolversi nel tempo, comunque di evitare due rischi facili: quello della semplificazione e quello della contraddizione.
Se penso alla perdita, non più sostenibile, di territorio, il mio punto di vista si carica di preoccupazione e rabbia, ma anche di certezza convinto come sono che la cosa primaria da fare è la sua salvaguardia per avere così, e solo così, la possibilità di utilizzarlo, promuoverlo e valorizzarlo con scelte che guardano al domani e non al momento, all’oggi.
La scelta della quantità non è l’uso del territorio e del suo suolo fertile, ma l’abuso, cioè la possibilità di sfruttarlo il più possibile e poi, una volta spremuto, abbandonarlo. È questo il caso dell’agricoltura e della zootecnia industriali, delle coltivazioni e degli allevamenti intensivi o super intensivi che, sicuramente, danno una grande risposta all’inizio per diventare, subito dopo, un peso e un problema per l’azienda coinvolta dalla facile propaganda e per il territorio sprecato. Un peso economico, finanziario e di lavoro per il coltivatore e l’allevatore, e, viceversa, solo un affare per l’industria di macchine, mezzi e strumenti per l’agricoltura e la zootecnia, quella di trasformazione e la grande distribuzione; un problema quando, nel breve arco di tempo, la coltivazione e l’allevamento spingono il coltivatore ad abbandonare e rendono il territorio una fonte d’inquinamento. C’è da aggiungere un altro elemento fondamentale da tenere presente ede è quello di un aggravamento ulteriore del tasso di disoccupazione.
Per una realtà come quella italiana - del sud in particolare - una scelta di questo tipo vuol dire un disastro, con la sola prospettiva certa che è quella di un nuovo grande esodo, questa volta non più con la speranza di poter tornare.
Questo mio punto di vista non contrasta con il fatto che vedo positivo un processo di ristrutturazione dell’olivicoltura italiana se, però, indicata da un piano che si aspetta da anni e sopportato da una chiara strategia di marketing, che trova nella qualità e nella diversità i suoi punti di forza e nella messa in opera di strumenti e strutture adatte a dare spazio e forza alla comunicazione stessa.
Una ristrutturazione - non sostituzione con nuovi oliveti composti da tre o quattro varietà imposte dagli spagnoli - che deve avere come premessa la salvaguardia del tempo e della biodiversità, due elementi che una volta persi non si possono più recuperare. C’è di più, il tempo e la biodiversità sono una ragione importante per fare spazio a un’olivicoltura polifunzionale e l’opportunità per l’olivicoltore di avere finalmente un reddito grazie alla conquista di quel valore aggiunto che, fino ad ora, è sempre mancato. Tutto questo con l’offerta di oli che trovano nell’origine (territorio) e nella varietà la possibilità di competere e vincere sui mercati.
Sono per i premi, ma non per quelli che sono diventati un cancro per la nostra olivicoltura. Sono per premiare la qualità e non la quantità, i processi di aggregazione dei produttori e di dialogo tra i diversi soggetti della filiera olio.
Sono, ripeto, per definire e sostenere un’attenta strategia di marketing per dare finalmente la giusta risposta al bisogno di reddito degli olivicoltori e al prezzo che merita la qualità e la diversità, certificate da un marchio Dop o Igp.
Senza una strategia di marketing l’olivicoltura italiana non ha conquistato quanto era nelle sue possibilità e, ciò che è peggio, sta perdendo opportunità e tempo preziosi nella conquista dei mercati e del gusto del consumatore. C’è d pensare che è stata e, se il vuoto permane, continua ad essere una scelta che fa comodo solo a chi punta sulla quantità di olio e non sulla qualità dei nostri, più che mai, preziosi oli.
Spero, con questo mio commento ai commenti, di dare un ulteriore stimolo alla discussione che serve per costruire, facendo di necessità virtù, una prospettiva futura all’olivicoltura italiana.
Domenico Musicco
19 gennaio 2015 ore 09:53Riportare dei dati Ufficiali non mi sembra di armare una guerra fraticida, a meno che io non abbia detto una cosa per un'altra ma non mi pare,
http://www.frantoionline.it/uliveti-e-olio/produzione-olio-di-oliva-nelle-regioni-italiane.html
Per quanto riguarda il "trovare un reddito" nel coltivare le olive e produrre olio, crede che sia solo per Alcuni ? Gli Altri lo fanno solo per sport amatoriale ?
Le rese non sono mai state un problema, ho sempre raccolto le olive nel momento giusto, ottenendo un buon fruttato, il vero problema è far capire al consumatore che esistono due tipi di oli (parliamo di quello fatto con le olive),
il primo è un olio buono che rispetti i parametri di EVO e che risulti gradevole al proprio palato;
il secondo è un olio di qualità e deve essere amaro e pizzicante.
Ma questo deve essere il consumatore a decidere quello che vuole !
Io opto per il secondo, e per me il top è il monovarietale; poi non addito nessuno se gli risulta gradevole e preferisce oli con varietà in percentuali e anche con aggiunta di oli extracomunitari, basta che si sappia !
Ritengo che il confrontarsi sia sempre costruttivo e non come Lei narra “ poesie e chiacchiere senza costrutto” e senza dimenticare che coltivare la Terra è fatica, provi lei a farsi fare un cancello da un fabbro e dopo averlo messo in opera gli dice che per Lei il compenso è di 100 euro se il fabbro ha speso 500 euro solo per farlo !
Grazie
Sergio Enrietta
18 gennaio 2015 ore 10:03Vedo che ancora una volta siamo alla guerra fratricida tra le regioni del Sud grandi produttrici di olio e le altre che producono poco, però da quel poco cercano di trovare un reddito.
Diciamo subito al fine di evitare equivoci che il fenomeno adombrato circa il fatto che la Puglia produce e gli altri imbottigliano, etichettano e vendono, con falsa denominazione, anche se patrimonio di molti "italici furbi" è orribile.
Molto più onesto sarebbe in etichetta avere le percentuali di varietà e provenienza, che compongono il contenuto, oso dire di più, anche di provenienza estera, starà al consumatore decidere se il prodotto lo soddisfa.
Agli organi pubblici non dovrebbe essere demandato altro dovere che analizzarne il contenuto e garantire la commestibilità del prodotto sotto l'aspetto sanitario, come per qualsiasi altro.
Assaggiare, giudicare, ecc, non andrebbe fatto a spese pubbliche, ma dai singoli consumatori, che, li si vuole dipingere come incapaci di intendere e volere, e a volte per la verità viene il dubbio sia cosi, comunque, direi che almeno questo diritto di scelta appartenga solo a chi compra.
Se poi, il consumatore non si fida delle sue papille gustative, potrebbe lui, a sue spese, andare dal "panel" di turno.
Fin qui la premessa, adesso analizzerei il cosa si può fare, mai dimenticando che chi compra è il consumatore.
Siamo certi che l'olivo va difeso a colpi di spese pubbliche sempre comunque e dovunque?
1 - Abbiamo casi in cui si produce, ci si lamenta, ma si continua.
2 - Abbiamo casi dove non si coltiva più, eventualmente si raccoglie se mamma natura è stata clemente.
3 - Abbiamo però casi in cui si produce, (poco dirà qualcuno, altri diranno niente, tanto buttarla in caciara va sempre bene) e si vende senza piagnucolare sulle rese.
La situazione non mi pare disperata e senza speranze, lo sarebbe se non ci fosse il caso 3, però c'è, quindi secondo me sarebbe il caso che, chi sta nelle posizioni 1 e 2 analizzi anche sotto l'aspetto commerciale il suo prodotto, purtroppo non basta potare e zappare, bisogna fare di più affinché il cliente compri.
Si potrebbe estendere il concetto anche al turismo, clima, ecc, tanto gli esempi sono sempre gli stessi.
Poi infine, se una coltura continua a non rendere la si sostituisce, altro che legge di divieto di abbattere.
Il resto è poesia e chiacchiere senza costrutto, che non faranno altro che alimentarsi a vicenda.
O no?
Con gli auguri per una migliore annata a tutti.
Sergio Enrietta
Domenico Musicco
17 gennaio 2015 ore 16:12Un Articolo che rispecchia alcuni dei problemi dell'Agricoltura Italiana, ma anche questo probabilmente parla a nome della grossa distribuzione!
Ad esempio si menzionano DOP e IGP, Bene! Ma io mi chiedo PERCHE' se Dop ad esempio ha il significato di Denominazione di Origine Protetta e IGP Indicazione Geografica Protetta che differenza riscontra il consumatore tra le due sigle ? E poi non voglio commentare il BIO !
Se unificassero sotto un'unica "sigla" una produzione del Made in Italy non sarebbe più omogeneo e più chiaro ?? O forse si tende sempre a "nascondere" la Puglia, la Calabria la Sicilia in favore di altre realtà minuscole ?? E che è? Girando negli scaffali dei supermercati sembra che le uniche a produrre olio siano solo l'Umbria, la Toscana, la Liguria, il Lago di Garda a cui vengono accreditate percentuali dello 0,5; 2,0; N.C.; e N.C.; mentre sembrerebbe che Puglia 37%; Calabria 33%; Sicilia 9,5% l'olio lo buttino a mare, o chissà cosa ne fanno !!
Sarebbe ora che ai consumatori venisse detta la VERITA' ! E non quella di chi è più "bravo" a commercializzare!! Iniziamo a dire delle verità, chi pota gli ulivi tutti gli anni? Chi ara la rerra invece di avvalersi di chi utilizza i diserbanti? Chi usa prodotti nei trattamenti a basso residuo ?
Ecco, secondo me oltre le sigle potremmo avvalerci di ANALISI di laboratorio e non solo di etichette e disciplinari che sino ad oggi hanno solo prodotto quello che è sotto gli occhi di Tutti !
Grazie e scusate lo "sfogo" !
Marino Mari
17 gennaio 2015 ore 15:13Pienamente d'accordo con il commento del Signor Frascarelli.
Marino Mari
Angelo Frascarelli
17 gennaio 2015 ore 09:27La qualità e la biodiversità sono una condizione importante per l'olivicoltura italiana. Ma non sono assolutamente sufficienti.
La qualità e la biodiversità non hanno prodotto risultati; gli oliveri sono abbandonati. Chi va a potare gli oliveti, se la produzione non ciopre neanche il costo della potatura?
La qualità e la biodiversità sono l'ideologia di imbalsamatori che hanno portato alla morte l'olivicoltura italiana.
Ci vuole la ristrutturazione degli oliveti che consentano di fare reddito e dare le gambe alla qualità e la biodiversità.
pasquale di lena
21 gennaio 2015 ore 18:52sono a ringraziare della bella compagnia ed a scusarmi di non aver messo il punto dopo "aggredire il mercato" e iniziare subito dopo con "Soprattutto di guidare..".
Bisogna essere vigili e capire il messaggio che arriva da personaggi del mondo dell'olio che, si possono ben definire, silenziosi protagonisti delle non-politiche che hanno messo in crisi l'olivicoltura italiana e che la terribile annata ha solo portato a galla. Si sono svegliati di colpo e si stanno dando da fare per promuovere e far passare, non il piano di cui ha bisogno la nostra olivicoltura, ma il loro piano, che avevano riposto da tempo nel cassetto e che, logicamente, è tutto basato sulla quantità.