Editoriali

IL VINO E' MORTO

08 ottobre 2005 | Franco Bonaviri

Il vino è morto. Anzi, no: è ancora vivo e vivrà a lungo, se solo vi saranno persone in grado di non svilirne l’immagine.

In questi anni di grande trionfo e di facili guadagni si è dimenticato il grande dramma umano e mediatico dello scandalo del metanolo. Correva l’anno 1986. Da allora molto è cambiato, il comparto vitivinicolo si è ripreso con baldanza e coraggio in tempi impensabili. Ed è stato un successo, su tutte le piazze del mondo. Ci si è cullati. Per troppo tempo, senza tuttavia pensare al futuro. Senza programmare il futuro. Ci si è illusi che tutto potesse procedere ininterrottamente come nei fantastici anni Novanta, raccogliendo solo consensi e vendite.

Poi a un certo punto ci si è accorti che qualcosa nel meccanismo iniziava a scricchiolare. Ci si è resi conto che i successi erano anche in parte gonfiati, con lavori di pierre e ufficio stampa molto agguerriti, ma spesso anche così privi di contenuti e di sostanza da reggersi poco e male.

L’opinione pubblica ha reagito bene, poi però si è stufata di tante parole al vento: i prezzi sono volati alle stelle, senza ragioni, più per un capriccio del responsabile commerciale e per sete di guadagni veloci e facili che non per motivi comprovati e accettabili. Poi il resto lo conoscete bene.

Il comparto vino è entrato in crisi, perché si è snaturato, perdendo l’elemento agricolo, quello propriamente rurale, che dovrebbe invece caratterizzarlo e distinguerlo da altri prodotti. Il vino è divenuto oggetto e non più soggetto. Il vignaiolo è stato percepito alla stessa stregua di uno stilista dell’alta moda.

Sta qui l’errore, pensare al vino come a qualcosa che non appartenga al ciclo della ruralità. A occuparsi di vino sono venuti fuori i personaggi culturalmente più estranei al prodotto: si trattava soltanto di accaparrare spazi, di guadagnar soldi, con guide, giornali, eventi e baggianate varie. Si è fatto marketing dimenticando la radice rurale che è insita nel vino. Così ci siamo ritrovati persone estranee alla terra, che ne hanno soltanto succhiato energie e risorse, speculando bellamente su un prodotto così nobile e così svilito.

I responsabili di questo stato di cose non sono però fuori dal mondo del vino. Ecco dunque la pazzia di questo comparto, che si affida a personaggi vuoti e inadeguati, ma famosi: il calciatore, l’uomo o la donna di spettacolo e quant’altri insomma la mente perversa riesca a concepire. Ma per fare cosa? Flatus voci, con costi notevoli per le organizzazioni e cadute d’immagine terribili per il vino.

Pensate soltanto a Bruno Vespa, autore per “Panorama” e per “Capital” di rubriche sul vino: ma vi rendete conto di simili assurdità? E’ pazzesco, in che mani ci si va affidando.
Nessun pregiudizio nei riguardi di Vespa, sia chiaro. E’ un professionista valido, discutibile per alcuni versi ma comunque bravo, indiscutibilmente bravo. Però che senso ha la sua opinione sul fronte del vino? Perché gli si dà spazio? A che titolo viene invitato in vari convegni del settore, strapagandolo?

In questi errori si nota la sprovvedutezza di chi non ha capito ancora nulla su come si debba trattare di vino in questo Paese. Per uscire dalla crisi occorre riprendere quell’anima rurale che si è smarrita da tempo. Ci sarà ancora voglia di farlo?

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