Editoriali
Dop e Made in Italy non sono concorrenti
21 febbraio 2014 | Giuseppe Liberatore
L’espressione “Made in Italy” è entrata negli anni nel linguaggio comune, diventando un vero è proprio marchio distintivo e collocandosi tra l’altro in vetta alla classifica dei brand che godono di maggiore notorietà. Una conferma della popolarità acquisita viene anche dalle esplorazioni effettuate sul web: alcune stime parlano di ricerche online, condotte con la parola-chiave “Made in Italy”, aumentate di oltre il 150% nel periodo 2006-2010 (+12% solo nel 2013).
Generalmente i prodotti agroalimentari che si fregiano in etichetta della menzione d’origine italiana godono di un particolare gradimento sui mercati esteri; l’appeal esercitato dal sistema manifatturiero italiano si traduce non di rado in una sorta di valore aggiunto percepito dal consumatore e talvolta in un potenziale vantaggio competitivo per le imprese che operano nelle diverse filiere produttive.
D’altronde l’indicazione “Made in Italy”, apposta sulle confezioni dei prodotti commercializzati, viene utilizzata per attribuire l’origine geografica del bene al nostro Paese, al fine di fornire al consumatore indicazioni aggiuntive per poter compiere scelte d’acquisto più consapevoli. E’ pur vero, tuttavia, che nell’accezione doganale (Codice Doganale Comunitario) per far sì che un prodotto possa essere considerato di origine italiana – con la possibilità di fregiarsi, dunque, del suddetto marchio – è sufficiente che l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale sia avvenuta entro i confini geografici del Bel Paese.
La vaghezza e disomogeneità di normative nazionali ed internazionali non stringenti in tema di tracciabilità dei prodotti tende a generare riserve sull’efficacia dei sistemi di etichettatura largamente adottati; le informazioni fornite, infatti, non sempre contribuiscono a fare chiarezza sulla provenienza delle materie prime e su tutte le fasi del processo produttivo.
Ne consegue che la sola menzione d’origine, per quanto indicativa, non riesce di per sé a descrivere appieno l’essenza di un prodotto, né tantomeno a garantirne la qualità, a meno che non intervengano sistemi di certificazione in grado di avvalorarne le virtù descritte.
In questo scenario di relativa discrezionalità concessa anche agli operatori del comparto agroalimentare in tema di etichettatura, si insinuano fenomeni che, lungi dal favorire trasparenza nel settore, più o meno lecitamente determinano dinamiche fortemente distorsive del regolare funzionamento dei mercati.
Se da un lato abbiamo infatti prodotti autenticamente italiani, elaborati a livello artigianale o industriale, che costituiscono elementi di traino e di vanto per l’intero settore, d’altro canto il falso “Made in Italy” imperversa, soprattutto sui mercati stranieri, sotto forma di vera e propria contraffazione o attraverso atti di concorrenza sleale che danneggiano pesantemente le nostre imprese (vedi italian sounding, dumping e altre pratiche commerciali scorrette).
A subire maggiormente tali fenomeni, quelle produzioni che costituiscono l’eccellenza del patrimonio agroalimentare nostrano: i prodotti ad Indicazione Geografica DOP e IGP, il cui prestigio e la cui notorietà rappresentano fonte di indebito sfruttamento e arricchimento a beneficio di coloro che ne evocano nome o origine.
Questi ultimi, non più prodotti di nicchia ma realtà economica sempre più vitale, si distinguono nel variegato panorama sopra descritto per alcune caratteristiche che ne determinano l’unicità: sono ciascuno il frutto di una combinazione unica di fattori umani ed ambientali peculiari di un determinato distretto geografico ed hanno la capacità di innestare una serie di relazioni economiche e finanziarie virtuose per l’economia dei nostri territori, oltre che essenziali per la tenuta sociale degli stessi.
Per questo motivo l'Unione europea detta regole precise per la loro salvaguardia, prevedendo l'istituzione di appositi regimi normativi di qualità. Solo quelle produzioni che dimostrano una tradizione produttiva consolidata e codificata, un legame inscindibile con il territorio di provenienza, un tessuto socio-imprenditoriale adeguato e che riescono a raggiungere elevati standard qualitativi, certificati da organismi terzi di controllo, possono aspirare ad ottenere e conservare l'ambìto riconoscimento comunitario e la contemporanea iscrizione al registro europeo dei prodotti DOP e IGP.
Gli operatori inseriti nel sistema di controllo sostengono costi rilevanti proprio con l’intento di assicurare che le produzioni certificate rispettino i parametri stabiliti da rigidi disciplinari in tutte le fasi del processo produttivo. Inoltre, i Consorzi di tutela cui aderiscono e che, ai sensi di legge, svolgono funzioni di tutela, promozione, valorizzazione, informazione del consumatore e cura generale delle Indicazioni Geografiche, investono annualmente cifre cospicue per vigilare sul corretto uso delle denominazioni.
Un sistema di qualità così impostato e regolamentato non può che generare garanzie per il consumatore, ma al contempo consente di salvaguardare le stesse aziende rispetto a comportamenti non corretti di singoli operatori che verrebbero estromessi dalla filiera certificata. Tutto ciò infonde trasparenza al settore e di riflesso si traduce in gradimento riscontrato sui mercati.
Riteniamo non esista in assoluto uno specifico problema di competizione tra prodotti autenticamente “Made in Italy” di qualità certificata e non. Un mercato che funziona in modo corretto garantisce a ciascun operatore di posizionare opportunamente la propria gamma di prodotto nei segmenti prescelti, sfruttando al meglio le leve del marketing mix che gli sono più congeniali. La libera concorrenza, se rispettosa di regole chiare, non può che giovare al miglioramento dei processi produttivi e alla cura generale dei prodotti.
L’altra faccia della medaglia, tuttavia, è rappresentata dalla carenza di disposizioni chiare ed inequivocabili in materia di informazioni obbligatorie su origine e provenienza da fornire in etichetta al consumatore. E’ incontrovertibile, infatti, che le “maglie larghe” di parte rilevante delle norme vigenti non garantiscono la piena trasparenza del settore, lasciando spazio a fenomeni di concorrenza sleale o, nel peggiore dei casi, ad attività fraudolente che compromettono il regolare funzionamento dei mercati. Il Regolamento (Ue) 1169/2011 costituisce solo un primo parziale tentativo di un’auspicabile inversione di tendenza a livello comunitario.
Per le ragioni esposte, l’uso dell’espressione “Made in Italy”, nel suo significato attuale, non può essere ritenuta - sic et simpliciter - condizione sufficiente a certificare autenticità e qualità di un prodotto, né tantomeno a garantire l’immunità rispetto ai suddetti fenomeni.
In questo ambito resta ancora molta strada da percorrere.
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Marco Cartolina
22 febbraio 2014 ore 07:03Condivido le preoccupazioni per il falso Made in Italy. Però' il vantaggio competitivo di questo marchio deve essere gestito con più' chiarezza. Per gli oli extravergini di oliva bisogna tener conto di quello che lei ha sottolineato nell'ultima frase "l'uso dell'espressione Made in Italy non può' essere ritenuta -sic et simpliciter- condizione sufficiente a certificare autenticità e qualità di un prodotto" . Con le numerosissime varietà di olive e i diversi fattori territoriali in Italia si producono oli extravergini completamente diversi tra di loro in termini qualitativi ed organolettici. Il consumatore che compra Made in Italy può trovare in bottiglia olio di Reggio Calabria oppure di Andria, o di altre zone di Italia, Invece i marchi DOP, con i loro disciplinari, informano in modo corretto i consumatori, non solo sull'origine territoriale, ma anche sulla qualità chimica ed organolettica. Quindi, a mio avviso, gli oli extravergini Made in Italy fanno concorrenza sleale agli oli DOP.
Marco