Editoriali

Messaggio ai lettori

10 marzo 2012 | Luigi Caricato

Ed eccomi pronto a insistere sulle solite note. Qualcuno, infastidito, dirà: basta con questi editoriali. Basta, soprattutto, con la solita storia della cultura. Già, perché scriverlo una volta va anche bene, ma insistere con puntualità certosina un mese sì e l’altro pure diventa quasi una persecuzione.

E’ proprio così? Forse, ma a me non importa: insisto. Proseguo noncurante per la mia strada. Qualcuno comprenderà il senso del mio messaggio. Messaggio che questa volta rivolgo a tutti, indistintamente. A mo’ di invocazione. Una preghiera laica. Una ricerca di condivisione, in realtà. O meglio: una infusione reciproca di coraggio.

L’ho detto a Trieste, in occasione di Olio Capitale. Lo ripeto qui: solo la cultura può salvare l’economia. La cultura è un seme che quando germoglia si trasforma in pianta; e ciascuno di noi è un po’ come una pianta che va aiutata nella crescita. Siamo potenzialmente alberi di lunga vita, potenti e solidi, dalle radici inizialmente fragili, minuscole, poi in seguito sempre più robuste e tenaci. Basta crederci.

A Trieste ho fatto un esempio che ritengo emblematico: dobbiamo trasformare l’attività agricola in attività culturale. Non è un caso che la parola “cultura”, dal latino colere, significhi proprio “coltivare”.

Noi, in fondo, siamo coltivatori di idee, prima ancora che di piante. Solo che trascuriamo – per un eccesso di superficialità, e forse anche per un senso di dabbenagine mai placata – il significato recondito che si cela dietro l’attività agricola. E’ un significato mai sufficientemente compreso e percepito in tutta la sua verità e potenza espressiva. E’ un significato svilito da personaggi senza arte né parte, che invocano la cultura senza praticarla né sostenerla. Ad oggi, tanto per avere il quadro della situazione, si investe in cultura solo relativamente a un misero 0,19 per cento del nostro Pil. Vi sembra la strada giusta da seguire? Senza cultura si spegne tutto, e noi, purtroppo, stiamo occultando il nostro futuro.

La cultura, tuttavia, non richiede soltanto investimenti in danaro. Chiama a sé soprattutto investimenti di idee, e quando queste mancano serve a poco investire ingenti somme di denaro per far finta di risollevare le sorti della cultura e del Paese. Ci vuole lo spirito giusto.

A Trieste, nell’ambito di alcuni convegni cui ho partecipato in maniera attiva, ho fatto capire che a volte può bastare poco. Prendete una bottiglia d’olio, o di vino, o di qualsiasi altro prodotto frutto dell’abile lavoro dell’uomo che coltiva la terra. Finora una bottiglia d’olio è considerata pura merce, e per questo quando un agricoltore compare in tivvù è costretto suo malgrado a nascondere l’identità della propria bottiglia. La confezione viene percepita alla stregua di una qualsiasi merce, non di un’opera di creatività.

Avete notato che non si vedono mai frontalmente le etichette delle bottiglie? Si inquadrano sempre di lato. Non vengono fatte esibire, evidenziando le etichette con il medesimo orgoglio con cui uno scrittore fa bella mostra di sé con il proprio libro stretto tra le mani, con inquadrature delle telecamere che ne onorano la copertina, in modo che tutti possano leggere. Lo stesso accade con i cantanti e i musicisti, i quali possono porre in bella vista i propri cd.

L’impossibilità di poter esibire la propria bottiglia d’olio, di vino, o di qualsiasi altro prodotto, è il chiaro sintomo di un grosso limite culturale e di un fraintendimento che nessuno osa risolvere. Il produttore di beni agricoli non è equiparato a un artista, quando invece la sua creatività la si ritrova in ciò che produce. Il fatto è che si insiste nel considerare pura merce una bottiglia d’olio, o di vino, o d’altro, quando è ugualmente merce in vendita anche qualsiasi libro o disco che si esibisca davanti alle telecamere. Solo che il libro viene vissuto intrinsecamente come un prodotto culturale, la bottiglia d’olio no: resta confinata nel puro ambito merceologico.

Sta qui l’errore di fondo che si continua a perpetuare per mera ignoranza. Anche una bottiglia di vino, in realtà – per esempio: il Sassicaia – è opera culturale. Allo stesso modo una bottiglia d’olio – per esempio: il Laudato – è opera della cultura e dell’ingegno. Non so se condividete il mio ragionamento, ma lavorare affinché si esalti e si valorizzi la figura di un agricoltore è un passaggio culturale che si può fare senza che vi sia alcun costo per la collettività. La cultura innalza l’uomo, anche a costo zero, ma se si investisse in cultura, mettendoci del denaro, sarebbe ancora meglio.

 

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Raffaele Giannone

12 marzo 2012 ore 18:42

Benemerito dr. Caricato,
(come vede mi sono permesso di omettere il troppo formale "egregio" che poco avrebbe espresso l'ammirazione che nutro per la sua azione informativa e formativa)
che il buon Dio le dia la forza e l'entusiasmo di continuare !
Per quel che può contare il parere dell'ultimo degli olivicoltori/frantoiani dalla più piccola delle regioni olivicole italiane, condivido appieno non solo il contenuto, ma anche l'evidente passione e partecipazione che traspare dal suo dire.

Esattamente ieri sera, con il caro amico Pasquale Di Lena, partecipando ad uno degli innumerevoli convegni sull'olio d'oliva e relativi aspetti salutistici, dopo erudite relazioni sugli antiossidanti, dieta mediterranea, piramide alimentare, etc. prima io, poi lui con maggior competenza, abbiamo ribattuto, martellato, ripetuto, ribadito la questione fondamentale della cultura se all'olivicoltura italiana,come ad ogni altro settore delle attività umane, si vuole dare un futuro dignitoso.

Certamente, per onestà intellettuale, occorre pur dire che affermato questo (il che è già un bel risultato,visti i tempi di grandi fratelli e isole dei famosi..) si apre un universo dialettico, una miriade di sfaccettature e interpretazioni storiche, sociali, ideologiche e persino semantiche sulla parola "Cultura".
Ho apprezzato moltissimo il suo richiamo etimologico di "cultura", annoverando fra le mie tante passioni non solo il saper potare un olivo o il saper controllare la gramolatura nel mio frantoio, ma anche l'assidua frequentazione dei vocabolari etimologici, alla riscoperta dell'immensa e affascinate ricchezza della nostra lingua italiana.
E attingendo all'insostituibile lavoro del Pianigiani ho scovato una conferma ulteriore , se mai ce ne fosse bisogno, ai suoi propositi:
pare che originariamente "colere" significasse "spingere l'aratro" nientemeno che dalla radice sanscrita "calayami" ovvero "spingere innanzi"!
Quale metafora migliore per i suoi propositi!

Arare sulla steppa dell'ignoranza imperante, dissodare il tuttologismo moderno, sradicare la malerba del profitto ad ogni costo, disinfestare l'ambiente dalle frodi e pubblicità ingannevoli, spingendo innanzi il mondo agrario verso l'autenticità, la tipicità, la trasparenza, la consapevolezza, la correttezza.

Ecco, a mio modestissimo avviso, una possibile interpretazione dell'azione CULTURALE da compiere senza affanni, ma senza sosta, come lei fa e tutti ci aspettiamo continui a fare.

Mi scusi l'idealismo, ma oggi si parlava di questo, son certo che i cari amici economisti, statistici e "mercatisti" mi perdoneranno anche questa volta, se ai numeri e alle percentuali, ho anteposto l'amore per l'olivo che per me non è solo una pianta, ma prima di tutto un'idea !

Con stima.

Raffaele Giannone, olivicoltore in terra di Molise

Romano Satolli

12 marzo 2012 ore 13:22

Caro Luigi,
insisti, insisti, insisti. Il mondo agricolo ha bisogno di cultura, per troppi anni (secoli) è stato considerato il mondo gretto ed incolto del bifolco, del contadino ignorante dalle scarpe grosse e dal cervello fino, ma cervello fino come furbizia, non di intelligenza, perchè la furbizia ben difficilmente si accompagna con l'intelligenza.
Anche io mi chiedo da anni perchè i grafici, esaltano nelle etichette dei vini il nome di fantasia, minimizzando la Denominazione d'Origine, per rendere ancora meno evidente, spesso in caratteri in oro su sfondo color panna, la dicitura Denominazione di Origine Controllata o la sigla DOC.
Il mondo agricolo ha bisogno di cultura, di uscire da quella grettezza ed ignoranza, spesso mista quasi a vergogna per una professione purtroppo da molti ritenuta ancora limitata ad un mondo fatto di mani callose e scarpe sporche di terra.
Continua cosi, "non ti curar di loro, ma guarda e passa".