Editoriali

NON C'E' DA STUPIRSI

12 febbraio 2005 | Luigi Caricato

Si chiama Josip Broz. E’ nato a kumrovec, in Croazia, nel 1892. E’ morto poi a Lubiana nel 1980. Muoiono tutti alla fine, per fortuna. Chissà se la sua coscienza, sempre che ne abbia avuta una, si sarà mai ribellata. Chissà se gli eccidi di cui è responsabile lo abbiano poi in tarda età non dico sconvolto, ma almeno turbato un poco. No, perché mai, certa umanità che si è nutrita sin nel profondo di sè solo di male, di male assoluto, non si sconvolge mai, non conosce pentimento, resta imperturbabile.



Josip Broz è un criminale. Questo nome non dice nulla ai più. Quest’uomo, meglio conosciuto col soprannome di maresciallo Tito, è lui. Sì, proprio lui, il responsabile del massacro di tanta gente. Senza distinzione di età.

Alcuni criminali la fanno franca. Questo criminale è uno tra questi. Però Josip Broz è un criminale speciale. Non soltanto è rimasto impunito, ma alla sua morte è stato ricordato con gli onori riservati a un giusto. Accade anche questo.

Nel 1980 i suoi funerali si sono svolti alla presenza di molte cosiddette “autorità”, anche di quelle italiane. Bella storia. Che impudicizia. Erano presenti le più alte cariche di molti Paesi. Per gli onori a un criminale.

Le truppe di Josip Broz, in arte maresciallo Tito, hanno torturato e massacrato. Certo, non è l’unico criminale di guerra; ma in alcuni comuni italiani c’è perfino chi gli ha intestato alcune vie cittadine quale forma parossistica di adorazione.

Qui – sia chiaro – non si fa una questione politica, ma di dignità umana. Non si intende ritornare sul passato inquinando di odio il presente; ma come è avvenuto con altri criminali di guerra si chiede quanto meno il rispetto delle vittime già solo riconoscendo i crimini attribuendoli a chi ne è responsabile.

Josip Broz, meglio conosciuto come maresciallo Tito, non può restare nel limbo degli uomini senza macchia, quando la realtà dei fatti corrisponde a tutt’altro e ancora grida angoscia, dolore e strazio.



Le foibe e l'esodo forzato di 350 mila istriani, fiumani e dalmati non sono frutto di una invenzione. Da allora, soprattutto a partire dal maggio 1945, nessuno ne ha parlato, tranne chi ha pagato duramente sulla propria pelle le assurde violenze perpetrate senza ragione. E chi ha parlato e scritto è rimasto, come era prevedibile, inascoltato. Per fortuna che un film trasmesso in Tv, “Il cuore nel pozzo”, ha fatto luce su episodi disumani, portando l’evidenza sotto gli occhi di tutti.

Ora che tutto sta via via affiorando, si rende però necessario ricordare tali eccidi. Le crudeltà dei titini non furono violenze come tante, ma un’autentica operazione di pulizia etnica. Dodici mila persone, tra bambini, donne e uomini, sono stati indistintamente ammazzati e “infoibati” solo perché italiani. Questi crimini i libri scolastici li hanno deliberatamente ignorati. Li chiamano storici, perfino; ma hanno tenuto nascosto o appena accennato la realtà dei fatti. Accade anche questo in Italia, non c’è da stupirsi.



Intanto, per ricordare l’eccidio titino, il 10 febbraio è stato eletto a “giorno della memoria”. Come per gli ebrei, per non dimenticare.
Sarebbe anche il caso di eliminare dalla toponomastica italiana le strade dedicate al maresciallo Tito. Nel medesimo tempo non sarebbe del tutto fuori luogo dedicare queste strade della vergogna ai Martiri delle Foibe. Ammesso che le appartenenze ideologiche a distanza di sessant’anni ancora lo consentano.

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