Editoriali

Agricoltura, sindrome da divisione

09 luglio 2011 | Elia Fiorillo

​Abbiamo una sindrome noi sindacalisti agricoli italiani che definirei “da ribalta” o, forse meglio, “da sceneggiata”. Per la verità questa patologia è comune anche ai politici e non solo. Insomma, siamo presi dalla paura che le nostre proposte non siano fortemente caratterizzanti – al di là del valore delle stesse – per il leader e per l'organizzazione che le suggerisce. E, allora, esageriamo alzando il tiro oltre misura. Connotiamo le iniziative che andiamo a mettere in piedi di significati che non hanno e che non potranno mai avere. Capita spesso di dividersi nello sport tutto italiota di provare a spararla più grossa in un'eterna competizione che assolutamente non serve al mondo agroindustriale.

​Una volta tanta mania di divisione si poteva pure capire. C'erano gli steccati ideologici, il muro di Berlino, i “padroni” e i piccoli coltivatori, quelli che “non avevano voce”. Oggi il frazionamento non si capisce più perché il “villaggio è globale”, nostro malgrado, e quello che andava bene solo una decina d'anni addietro non funziona più. E' superato, appunto, dalla “globalizzazione” che per essere affrontata e vinta ha, tra l'altro, bisogno d'unità d'intenti. Si può correre ovviamente da soli con tutti i rischi che ciò comporta. Se vuoi stare in campo però con un minimo di successo hai bisogno d'idee e di un “sistema paese” che ti possa supportare. Serve a te, ma soprattutto all'economia della tua realtà nazionale.

​Le battaglie sull'etichettatura e sull'origine sono sacrosante. Ma è possibile che su di esse nel nostro paese non riusciamo a fare un'operazione di condivisione che possa servire a tutti, commercio, industria, agricoltura? Ed anche sui controlli, è serio che intere categorie si additino a vicenda ritenendo che tutto il male del mondo stia annidato sull'altra sponda, appunto della categoria avversaria? Francamente questo manicheismo non mi convince, tutti i buoni da un lato e i cattivoni sull'altra sponda. Semplificazioni che, ripeto, potevano essere giustificate una volta, ma che adesso fanno danni micidiali all'economia della nostra nazione. C'e' poi il non secondario problema del ruolo delle istituzioni che da arbitri imparziali spesso si trasformano in accaniti giocatori, che scelgono la squadra per cui parteggiare non in base all'oggettivo interesse della collettività, ma al "consenso" elettorale che possono ricevere. Così tutto si falsa.

​Attenzione, non mi passa assolutamente per la testa di sostenere che i farabutti non ci siano. Stanno da tutte le parti della filiera agroalimentare con peso specifico ovviamente diverso. Proporzionato al potere della categoria; dagli interessi economici che essa rappresenta. Il problema è come riuscire a costruire un percorso virtuoso che metta insieme chi vuole costruire il futuro, per utilizzare un linguaggio da favola, i “buoni” che ci sono nelle tre categorie citate. Non è cosa semplice perché un po' a tutti conviene il muro contro muro. I proclami solenni che prevedono, ad esempio, da una parte il decentramento produttivo, dall'altra le denunce più assurde di rappresaglie. Insomma, missili contro missili. La pace costa perché t'impone di capire le ragioni degli altri e, comunque, ti devi spogliare da preconcetti e da parole d'ordine che ti rendono la vita facile – nel breve periodo – nel confronto con i tuoi associati. Il futuro però passa da questa nuova era dove il dialogo è alla base del salto di qualità per affrontare la globalizzazione. Non è cosa facile il confronto. Esso impone se non condivisione, per lo meno ascolto dell'altrui verità. Bisogna provarci però soprattutto in spirito non opportunistico, limitato a qualche affaruccio in più. Dal mio punto di vista, certamente limitato, l'imprenditore è uno che assolutamente cura i propri interessi e per curarli bene ha bisogno dell'occhio lungo, di prevedere il futuro, per certi versi d'imporlo. L'imprenditore, insomma, è uno che “contribuisce a sviluppare nuovi prodotti, nuovi mercati o nuovi mezzi di produzione”. Per capirci non è un bottegaio, un commerciante che non crea ma vende ciò che altri fabbricano. E, i sindacalisti, le organizzazioni sindacali, non possono volere la morte degli imprenditori, anzi. Se crediamo che il tempo non è passato e riteniamo di stare ancora ai tempi della lotta di classe, allora è un altro discorso.

​Il decentramento produttivo in paesi più favorevoli sotto l'aspetto del costo del lavoro e del prodotto, nonché dei controlli, può essere una soluzione per quelle imprese, spesso multinazionali, che non hanno bisogno del cosiddetto “sistema paese”. Se punti sulla qualità legata al made in Italy come immagine non puoi decentrare. Se lo fai puntando sempre sui due elementi caratterizzanti, qualità ed italianità, allora vuoi imbrogliare, ma questo è un altro discorso. Per converso anche "la produzione" deve darsi una regolata. Si può puntare alla nicchia ed ai mercatini di paese. Alla genuinità localistica a prezzi consistenti e questo può andar pur bene. Ma se vuoi affrontare la globalizzazione imponendo, appunto, il “sistema paese” e cioè la qualità, l'origine, la cultura, il paesaggio e via dicendo, allora ti devi differenziare strutturandoti. Hai bisogno di ragionare lasciando perdere gli aiuti comunitari che in alcuni casi si sono trasformati in una droga pesante e deleteria per le nostre produzioni, in particolare per l'olio d'oliva. Insomma, bisogna razionalizzare per sviluppare. E la razionalizzazione nel settore agricolo e specificatamente olivicolo significa migliorare i fattori della produzione; vuol dire conduzione associata dei terreni, associazionismo non burocratico e via dicendo. Soprattutto fatti non parole.

 

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Donato Galeone

12 luglio 2011 ore 07:20

Caro Elia, condivido che nella "globalizzazione" le imprese multinazionali non hanno bisogno del "sistema paese" e se punti sulla qualità del made in Italy - come impresa - non puoi "decentrare". Per le "filiere" ma ancor più per le filiere agroalimentari - è esemplare l'olio extravergine ottenuto da olive italiane - con i due elementi caratterizzanti il prodotto "qualità e italianità" che non può essere decentrato perché - tutti dovremmo convenire con Te - sono le due componenti "qualificanti" il nostro "sistema paese". Altro che "sfogo di un sindacalista" il Tuo editoriale!!!
E' a mio avviso - il Tuo editoriale - un serio e responsabile appello unitario tra produzione,trasformazione e per un sostegno mirato - visibile - alla commercializzazione del prodotto agroalimentare italiano. Partendo dall'aggregazione delle "produzioni territoriali" - sempre più da migliorare nelle quantità/qualità delle oltre 500 varietà italiane vegetanti- anche la seconda fase - trasformazione delle olive - non può essere disgiunta dall'offerta di prodotto: la commercializzazione. A mio avviso,il produttore - conferite le olive in partita unica per la trasformazione - deve a sua scelta partecipare, con quota predeterminata, alla commercializzazione del prodotto. Ecco il come, caro Elia, la "produzione regolata" si riconoscerà in "fliera".
E forse qui che riemerge la "sindrome della divisione" di un associazionismo di facciata che se non è più ideologico a me appare più vicino al mondo dell'affarismo egoistico commerciale - che se pur ritenuto legittimo - dobbiamo convenire che è una parte della "Filiera Olivicola". E' chiaramente non solidale oltre che scarsamente equo, non sempre trasparente, tra produzione,trasformazione e commercializzazione del made in Italy.
Queste "novità" più propagandate con "slogans" anche in questi giorni - molto meno tra i produttori agricoli nei contenuti - ci impegnano ad estendere l'attivazione unitaria - diretta ed operativa - tra produzione, trasformazione e commercializzazione "partecipata" degli olivocoltori al prodotto territoriale, certificato, da offrire al mercato, si anche multinazionale aggregato per territori , degli oli extravergini di alta qualità italiana.
Donato Galeone

Vincenzo Lo Scalzo

09 luglio 2011 ore 13:06

Caro Fiorillo, da tanto tempo non leggevo una lettera di sfogo di un "sindacalista" professionista, aperta, sincera ricca di osservazioni sagge e di contraddizioni, perchè forse, a mio parere personale, al termine nemico di "imprenditore" oggi si sostituisce ancora una nuovo termine "globalizzazione". Frammentazione e unità d'intenti trovano un unico e potente nemico della società di 7 miliardi di esseri umani: "speculazione". Maledetto potere effimero: basta un click sbagliato per cambiare lo scenario finanziario del globo, in una ripercussione a catena. Altrettanto avrebbe potuto succedere con un click di potenza senza alcuna barriera etica o etico/politica. Pare al momento che si sia evitato il possibile disastri planetario per la violenza del potere, ma è intatto con poche ferite il campo della violenza della speculazione.
Ho percorso due terzi del mondo socio-economico con la fortuna di poterlo osservare senza interessi e ambizioni di potere, l'Italia e gli italiani potrebbero essere uno dei popoli più felici di questo pianeta con il corredo del loro territorio, del loro clima, della loro biodiversità intellettuale. Ma senza speculazione. E' un cancro.
Condivido le tue conclusione e gli obiettivi, in quanto sarebbero raggiungibili, senza grandi difficoltà, ma solo nel rispetto dei diritti delle libertà altrui e nella coesione e mantenimento della nostra civiltà invidiata. Ma senza "speculazione". Il che significa tutte le conseguenti pratiche di "corruzione" e di "prepotenza", spesso posta in atto "legalmente". Dobbiamo cominciare proprio da una "giustizia" affidabile e da codici etici veramente sottoscritti, individualmente.
La tua indicazione di percorso resta comunque la più condivisibile, per confermare la qualità italiana. Il nemico non è la "globalizzazione", l'obiettivo è essere affidabili e piacevoli, bravi, ricchi di fantasia e di "clic" perché la scelta del Made in Italy avvenga senza la fregatura finale. Ma stiamo imparando, stando dalla parte del bicchiere mezzo pieno.

V. Lo Scalzo