Editoriali

IL PRESEPE FA PAURA

18 dicembre 2004 | Sante Ambrosi

In questi giorni prenatalizi sembra che una delle questioni più discusse – e che preoccupano soprattutto maestre delle scuole elementari di tutta Italia e i genitori dei bambini che le frequentano – sia la questione dei presepi nelle scuole.
Questa tradizione tanto radicata nei sentimenti degli italiani è messa in discussione nel nome di una tolleranza e di un rispetto indiscutibili nei confronti dei bambini di altre religioni, in particolare di quella islamica.

Così è avvenuto che in varie scuole si è deciso di eliminare il presepe, perché i bambini di altre religioni potevano essere disturbati e le maestre, prese dal sacro ardore della tolleranza tipicamente occidentale hanno pensato di sostituirlo con qualche altro simbolo più innocuo e rispettoso.

Ovviamente si sono alzate da più parti le reazioni più indignate, da quelle delle autorità ecclesiastiche a quelle di molti gruppi di cattolici particolarmente sensibili. Anche molti politici si sono schierati contro questo abuso che offenderebbe le nostre tradizioni italiane e occidentali.

Queste reazioni tornano sul tema della nostra difesa da una invasione di culture di altro genere, da una lenta penetrazione di religioni, soprattutto di quella islamica, che a lungo andare porterebbe inevitabilmente ad uno scardinamento della nostra società:

Da una parte, dunque, la tolleranza, figlia del nostro moderno pensare occidentale e dall’altra la paura di essere dominati e conquistati da culture estranee.

Si tratta di fare un po’ di chiarezza su queste due posizioni, perché entrambe sono errate, e mi sento di tentare una timida chiarificazione della questione, convinto che certe aperture sono deleterie, ma anche certe non motivate chiusure lo sono altrettanto.

Cerchiamo di chiarire bene i termini della questione. Un presepe, per noi cristiani, sta ad indicare un fatto estremamente importante: il Figlio di Dio si fa uomo nella povertà estrema, sceglie di vivere non tra i potenti ma tra i più poveri, diventa Egli stesso povero, condividendo la sorte di tutti gli esclusi dalla società che conta.

Certo questa verità del Dio che si incarna e diventa uomo nella povertà di un presepe è una peculiare verità cristiana. Non si parla di un Allah che si fa uomo, ma questo non significa che anche nel Dio tanto caro agli islamici non sia in qualche modo congeniale questa verità con la loro fede, perché anche il loro Dio è vicino ai poveri, come tutti gli dèi sono stati presentati sensibili e vicini al povero.

Nel presentare, dunque, il Figlio di Dio che nasce povero non facciamo altro che esplicitare un sentimento che ci accomuna nel profondo e non ci separa e contrappone.
Ogni verità ed ogni intuizione della verità non possono essere offesa per nessuno, anzi, è e deve essere sentita come un arricchimento reciproco.

Ricordo che in una moschea ad Istanbul un giovane teologo spiegava al gruppo di turisti cui facevo parte il significato del levarsi le scarpe per entrare nel tempio e del tappeto, magari un semplice giornale, dicendo che la preghiera era un sollevarsi da terra, un purificarsi per entrare in contatto con Dio.

Il Dio, diceva, che è totalmente altro da noi e noi siamo sempre indegni della sua bontà e della sua santità.
Ebbene, questa verità, così marcata dal simbolismo tutto islamico non è stata avvertita da nessuno come un qualcosa di estraneo alla nostra religione, anzi come un simbolo che evidenzia qualcosa che è anche nella nostra fede.

I simboli espressione di intuizioni profonde appartengono a tutte le fedi.
Perché dovrei sentirmi offeso dalla presenza di Simboli, quando esprimono verità inaccessibili eppure fondamentali?

Ma anche l’ateo non dovrebbe sentirsi offeso dalla presenza dalla presenza di questi simboli. Anche se non crede in nessun Dio dovrebbe convenire che l’idea di un Dio che entra nella storia a fianco dei poveri e che condivide la sorte degli ultimi, non dovrebbe essere un qualcosa che lo disturba nella sua umanità profonda.

Del resto quanti filosofi, anche non credenti, si sono ispirati alla Bibbia ed all’insegnamento di Cristo per elaborare tesi di profonda umanità.
Penso a certe tematiche dell’Illuminismo, del Romanticismo, ma anche dello stesso marxismo, di cui ricordo in modo particolare il nome di un Bloch, con le sue tesi sulla speranza, tratte tutte dalla grande utopia del cristianesimo.

Ma, purtroppo, nella nostra società si sono persi anche i valori umani. In nome di una vacua tolleranza e di una modernità di pura apparenza non esistono più segni che ci spingono a riflettere sul nostro mondo, sulla vita e sulle nostre relazioni.

Tutto è diventato segno distintivo di contrapposizione, di mercificazione.
I simboli non parlano più all’uomo e dell’uomo e allora tutto diventa sospettoso e pericoloso, come del resto anche la parola umana si è persa in una miriade di chiacchiere che creano soltanto confusione.

La colpa, naturalmente, non riguarda solo le poche persone che hanno creato i singoli casi di cui si discute in questi giorni, ma tutta la nostra cultura che ha perso il valore altamente umano dei simboli perché è una società senza pensiero. Ma una qualche colpa è anche dei cristiani che hanno impoverito i propri simboli, che non riescono più a parlare e ad annunciare qualcosa che deve interessare tutti gli uomini.

In conclusione voglio dire che il problema non sono i nuovi arrivati, con le loro sensibilità, la loro religione, la loro cultura, ma noi, per le nostre chiusure, le nostre miopie, le nostre incapacità di aprirsi ai significati universali dei simboli. Proprio per questo il presepe è diventato insignificante e un po’ fastidioso alla nostra cultura. Il pretesto degli altri è solo un pretesto per liberarcene tentando di salvare la faccia.

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