Editoriali 12/01/2018

L'alta qualità dell'olio nazionale in un'IGP Italia

Non esiste un "Marchio Italia" che garantisca insieme su origine e su qualità intrinseca del prodotto.Un percorso probabilmente irto di ostacoli. Ci rinunciamo allora? O proviamo a farne uno che garantisca davvero sulla qualità e che sia spendibile nel mondo? La proposta di Stefano Polacchi, caporedattore Gambero Rosso – curatore Oli d'Italia


E' sempre difficile cominciare un discorso sull'olio extravergine di oliva. Credo che ilmotivo principale di questo (almeno mio) disagio sia in una sensazione che quasi sempre colpisce quando si parla di olio buono e di produzione italiana e artigianale: tutti sappiamo cosa sia la "qualità"; in pochi fanno qualcosa davvero per sostenerla. Qualità, in questo caso, significa essenzialmente due cose soltanto: acidità libera bassa e basso numero di perossidi. Però, poi, quando si fanno marchi, certificazioni e cose simili se ne tiene ben poco conto. Oltre a far bene al fisico (e, forse ancor più importante, al palato e quindi al cervello e allo spirito), produrre un olio extravergine di oliva di qualità significa quasi automaticamente avere un ambiente (una campagna, una terra, un paessaggio) di qualità. Per avere olive sane occorre tenere bene il campo, curare gli olivi, raccogliere a tempo le olive... Però, sempre più l'offensiva della grande industria dei grassi (e dell'olio) punta a farsi strada occupando spazi di immagine e di mercato finora destinati ai soli oli di qualità (sempre origine certa, bassa acidità, basso numero di perossidi e sufficiente livello di polifenoli antiossidanti). C'è la corsa al 100% italiano (anche se poi molti marchi prediligono le miscele di oli comunitari), c'è la corsa alle guide (più o meno vere), c'è la corsa ad accreditarsi con immagini di freschezza e di raccolte precoci. Basta guardare un po' la pubblicità in tv. Grande industria vuol dire (non necessariamente, ma purtroppo è così) super attenzione al prezzo, limitazione dei costi, competizione sui centesimi di euro. Il che si traduce per gli olivicoltori in remunerazioni bassissime nel caso in cui debbano vendere agli imbottigliatori e ai commercianti. Questo significa maggior attenzione a contenere le spese di coltivazione, attenzione alla quantità e minore cura per quella famosa qualità, sia delle olive che degli alberi che del paesaggio. In questa sitazione, quindi, o l'olio extravergine di oliva artigianale (o di qualità) made in Italy trova un suo mercato e viene sostenuto nel tentativo di ragiungere prezzi remunerativi e soddisfacenti per chi lo produce partendo sostanzialmente dalle olive, o la partita passa nelle mani di commercianti e industriali e addio a tutto.

Dico questo partendo dalla considerazione che elemento identificativo, identitario, del made in Italy è la grande biodiversità e dunque le tante varietà che la nostra terra e la tradizione e cultura produttiva offrono, a differenza degli standard industriali. Meno artigianalità significa meno biodiversità e quindi meno cura per un ambiente e un paesaggio che hanno bisogno di cure e di attenzioni molteplici e costose e che a fronte degli investimenti che richiedono possono dare unicità e appettibilità a livello mondiale: export, agroalimentare, turismo, incoming...

Poco tempo fa, in un convegno delle Città dell'Olio a Canino, si sono dette parole molto forti e foriere di speranza per il mondo dell'olio agricolo (chiamiamolo così!). Era tempo che non si sentivano proclami così netti e decisi a favore della qualità (nel senso di cui sopra). Antonio Rosati, amministratore Arsial, ha esordito citando il sondaggio Nielsen sui brand più noti nel mondo, quelli che a livello globale hanno più appeal e riconoscibilità immediata: al primo posto c'è la Ferrari, a secondo la Coca Cola e al terzo Roma. La citazione era propedeutica all'esortazione ad unirsi e a proporsi al mondo come band Italia, a superare gli eccessivi territorialismi nella comunicazione, a usare la riconocibilità del made in Italy come ponte per veicolare la conoscenza delle nostre tante diversità. Cosa che, detta in un convegno di agricoltori, non è scontata. E detta da un amministratore regionale fa ben sperare in un impegno in tal senso delle istanze istituzionali. Anche il presidente Unaprol, David Granieri, ha esordito all'insegna della (di cui sopra) qualità polemizzando con l'attuale legislazione in materia di extravegine che ammazza la qualità fissando il famigerato limite all'acidità libera nello 0,8%. Voi che fate l'olio in frantoio – ha arringato la platea – sapete benissimo che per avere un olio con un'acidità al 3% dovete proprio metttercela tutta nello sbagliare! Sapete benissimo che gli oli che fate nei vostri frantoi con le vostre olive non superano la soglia dello 0,3%. Dunque – diciamo noi – tra questi oli di oliva di cui parla Granieri e gli extravergine secondo la legge europea che fissa a 0,8% il limite dell'acidità libera, c'è un abisso. Si tratta di due mondi diversi. Di due prodotti assolutamente diversi nella sostanza. Sono (dovrebbero essere) due generi merceologici assolutamente separati. Questo però, non si riesce a ottenere, nonostante sia una forma di rispetto e di tutela per il consumatore. Finora sono state tante le battaglie per far riconoscere dalla normativa europea questo semplice datoo di fatto, ma non si èmai riusciti a scalzare il niet della ggrande industria, dei grandi commercianti di olio, dei grandi produttori intensivi spagnoli.

Così da una parte, per marcare questa differenza a livello commerciale, si è creato il marchio 100% italiano, dall'altra si sono sviluppate le certificazioni di origine con i loro disciplinari di produzione più o meno stringenti. Ciò, con una serie di problemucci: il 100% italiano è un marcho che si ottiene in via documentale, ovvvero non prevede la forca caudina delpanel test. E ha maglie abbastanza larghe sul fronte della qualità (chiamiamola "agricola") di cui sopra. Dop e Igp, in linea di massima danno una buona garanzia al consumatore, ma spesso hanno maglie un po' larghette (come i limiti di acidità allo 0,5%) e spesso non particolarmente stringenti sulla territorialità stretta. Ma il vero limite è sui mercati internazionali: se si può provare in alcuni paesi provare a spiegare in Usa (o per lo meno a New York) cosa siano Toscana e Sicilia, forse più problematico è far capire ai cinesi cosa siano Marche e Calabria. Roma è il marchio famoso, dietro a Ferrari (entrambi sinonimi di Italia). Questa cosa le associazioni le hanno capita e infatti è già partito il percorso per una nuova Igp Roma che comprenda gli oli del Lazio. Peccato che il limite per l'acidità (veri discrimine per l'alta qualità) sia fissato allo 0,5% e non allo 0,4 o (meglio ancora) allo 0,3%. Ma si capisce: il business che potrebbe essere alimentato da un marchio Roma, fa gola a molti e difficilmente le associazioni di categoria vogliono farsi sfuggire l'amicizia dei produttori più grandi e potenti (e un po' meno rigidi sulla qualità!). Ma tant'è! L'ipotesi di Igp Italia lanciata provocatoriamente a Canino dal mio intervento – e verso la quale Antonio Rosati ha mostrato curiosità – è stata liquidata da David Granieri con poche parole: non verrebbe mai approvata. E forse ha anche ragione. Ma Granieri aggiunge: non sottovalutate la proliferazione delle nuove Igp regionali, sono molto importanti per il mondo dell'extravergine e per i produttori. Siamo convinti che sia così, che se a far compagnia all'Igp Toscano si siano ora aggiunte le Igp Marche, Calabria, Puglia e Sicilia, il mondo dell'extravergine agricolo possa solo guadagnarne in trasparenza e in livello di qualità medio.

Quello che manca e che continua a mancare, però, è la squadra, il made in Italy come fronte compatto pur nella sua articolata diversificazione interna. E ogni anno nel mondo escono gli articoli scandalistici sull'olio italiano che fa schifo, che è una truffa, che non è neppure extravergine. Questo perché i grandi marchi industriali italiani (non tutti in mano italiana, per altro) utilizzano olio di oliva di livello basso, non italiano. Non esiste un "Marchio Italia" che garantisca insieme su origine e su qualità intrinseca del prodotto.
Io credo che una Igp Italia abbia un senso, in particolar modo sul fronte della produzione di olio extravergine di oliva e facendo proprio leva e forza sulla caratteristica diversità delle cultivar e delle caratteristiche organolettiche degli oli di oliva che ne derivano. Ma prendiamo per buona l'obiezione che sarebbe un percorso lunghissimo e irto di ostacoli, in un tessuto in cui unire è sempre ancora molto difficile.

Rinunciamo al "Marchio Italia", allora? O proviamo a farne uno che garantisca davvero sulla qualità e che sia spendibile nel mondo? Perché non pensare a un marchio-ombrello collettivo cui possano aderire gli extravergini dop e igp (ma anche quelli non certificati, o 100% italiani) che rispettino determinati paletti molto rigidi e davvero garantiti? Tipo: acidità massimo a 0,3%, limite di perossidi sotto il 9% e polifenoli (biofenoli) non inferiori a 200. Vi sembra troppo? Guardate che un olio che abbia parametri inferiori a questi difficilmente riesce a entrare in una guida come quella che realizziamo al Gambero Rosso. O in un'altra delle guide agli extravergine di qualità italiani. Perché non provarci?

di Stefano Polacchi

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Commenti 1

leonardo  fornario
leonardo fornario
13 gennaio 2018 ore 13:09

sono d'accordissimo su un marchio olio evo italia ma con i distinguo regionali e territoriali, sono della puglia e nn ho mai sopportato che i liguri, gli umbri e i toscani si facciano belli e ricchi con l'olio o le olive pugliesi che acquistano a nero e vendono il tutto come olio dop. ognuno si venda il proprio olio per quello che è e poi vediamo chi realmente merita e chi deve accontentarsi di misere produzioni e di dubbia qualità. è ovvio che vi è una negligenza e responsabilità da parte dei produttori pugliesi ma posso assicurare con dati alla mano che le cose stanno cambiando, oramai anche i più piccoli produittori hanno capito che possono farcela da soli. scusate per lo sfogo. grazie e buona giornata. leonardo fornario