Cultura

Una caccia infernale, naufragio di cuori e corpi

Il colpo di teatro segnerà la strada che dalla pineta riporta alle campagne e alla città, dove la vita scorre se nessuno la devia e l’impaluda. Un piccolo omaggio di Nicola Dal Falco a Boccaccio, relativamente alla novella che tratta dell'alterigia in amore

02 ottobre 2010 | Nicola Dal Falco



La caccia infernale

È la pineta, l’alta ombra che il vento di mare fa risuonare, lo sfondo di una caccia infernale, naufragio di cuori e di corpi, abissale eppure realissimo.
Contrada silvestre e marittima, cupa o sfavillante di luce come la distesa d’acqua che la delimita.
Nelle pinete, il silenzio si carica sempre di un colmo di schianti e fruscii. Anche gli uccelli e gli altri animali la amano e la temono, passandovi svelti, di rifugio in rifugio.
Solo di notte, con la luna, i raggi tessuti ad uno ad uno sembrano regalarle un pensiero estraneo e finalmente felice.

Di questa maestà scontrosa, imprevedibile, si tesse la storia che Filomena narra nella quinta giornata del Decamerone dove l’amore offerto e rifiutato diventa il prezzo del passaggio, la moneta di scambio per l’aldilà.

Nastagio degli Onesti ama con tutti i mezzi che l’agiatezza gli mette a disposizione una delle figliole di messer Paolo Traversari.
Profonde nell’impresa grande costanza fino a che non decide di abbandonare Ravenna, inutile terreno di caccia, e di trasferirsi a Chiassi, tre miglia fuori dalla città.
Qui, ai margini della pigneta, si accampa come un re o un generale, trasformando la sua vita in attesa, patteggiando con se stesso un esilio dell’anima, un assedio a distanza.

Una mattina, però, per un motivo senza nome, l’orizzonte verde che ne cinge lo sguardo si apre e lo chiama. Pochi passi separano Nastagio dalla macchia, sopra cui si allunga la linea aerea dei pini.
Entrare nell’ombra assomiglia ad un’uscita in mare; è come salpare, violando l’anticamera del mare mare.

Il terreno, ricoperto d’aghi di pino, infonde piacevoli sensazioni e il canto di due uccelli – un accordo di note che si cercano – le trasforma in letizia. Era di venerdì, quasi all’entrata di maggio.

Lasciata alle spalle la radura, Nastagio s’incammina un mezzo miglio dentro la pineta prendendo, pian piano, visione del largo.
Inoltrasi e lasciarsi portare dalla profondità che cresce.
Per un po’ quel grado di ebbrezza conserva i contorni di una vertigine controllata, ma all’improvviso, tutto s’incrina ed è l’udito, come in un violento risveglio, a squarciare la seta del mattino.
Come se il mare avesse iniziato a battere la riva, si ode uno strepito di rami spezzati e un crosciare di fronde; all’urlo e alla corsa pazza di qualcuno che si fa largo nella macchia, si mescolano il latrare basso e continuo dei cani e, ancora lontano, il trotto sostenuto di un cavallo.

Scaturiti dall’ombra, dalle pieghe della terra, appaiono una giovane inseguita da due mastini che la incalzano, mordendole i fianchi e i polpacci.
Corre piegata in avanti, nuda, le braccia tese come a nuotare per avanzare in fretta.
Non ha più sguardo negli occhi, solo la corsa innanzi e un vuoto dietro che la risucchia.

Alle spalle, incombono fusi nello stesso vento il cavallo nero e il cavaliere bruno, con il braccio alzato, armato di stocco, lanciando parole spaventevoli e villane.



*

Riuniti tutti gli elementi della scena, la vista si riprende l’attenzione, quasi ad escludere i rumori che fino a quel momento avevano fatto galoppare i pensieri.
La stessa concentrata brutalità che affiora nel quadro di Botticelli dove i colori, incastonati nel contorno delle figure e delle cose, squillanti e ripiegati in sé, seguono la luce mortale, saturnia, del dramma, aggravato, per così dire, dall’orizzontalità della sequenza.

I fatti preludono ad un epilogo che è destinato a ripetersi per un tempo fissato e, pertanto, la scena si dipana simile ad una fune tesa, tirata in una direzione e
destinata a riannodarsi nuovamente al suo inizio.
Perciò, in un silenzio che non c’è, Nastagio, sciogliendo
i nervi aggrinziti, trova e impugna un ramo. Lo fa d’istinto per difendere la giovane dai cani e affrontare il cavaliere bruno.
Gli intima, anzi, di fermarsi e quello, mostrando di conoscerlo e chiamandolo per nome, gli risponde di non immischiarsi, che subito capirà la ragione e il senso di quanto accade.

La giovane inseguita e il cavaliere inseguitore compiono un loro viaggio infernale, scontando per analogia, in “loca maritima”, una pena tutta terrena.
Colpisce l’ambientazione del racconto che sceglie la marina di Classe, fuori Ravenna, quasi che la reciproca vicinanza di terra e di mare ispiri l’abbraccio e la paura tra il prima e il dopo, l’evidenza dei desideri e il prezzo che la vita reclama.

Perché un patto infranto, anzi, ignorato è alla base della vicenda del cavaliere bruno, specchio delle incomprensioni d’amore che affliggono il cuore di Nastagio.
Così doppia è la vicenda che il suo nome, Guido degli Anastagi, riecheggia quello dell’incauto spettatore, incamminatosi nella pineta.

Anche Guido ha amato senza possibilità alcuna una donna che ne ha umiliato gli sforzi, aprendosi al sorriso solo dopo che l’amante si era arreso al suicidio.
Ora, il cavaliere con lo stocco, vestito di bruno - il colore della terra nuda che rimanda all’espressione torva del viso - anela vendetta, mette il proprio braccio a servizio della divina giustizia.

Divina in un senso più pagano che cristiano per l’offesa arrecata ad Afrodite e ad Eros, al dovere di scambiarsi doni e futuro, accumunando la gioia che insegue il tempo breve, rarefatto, d’ogni esistenza.
Dovere d’amare, di sottomettersi senza orgoglio alla potenza dei due divini antenati.



*


Nastagio apprende che tutti i venerdì, per quanti anni è durato l’inutile amore di Guido, questi dovrà inseguire la donna nella pineta, braccarla e ucciderla.
La ripetizione scandisce la comune condanna, trasforma anche il cacciatore in cacciato, preda del proprio furibondo dolore.

Nel giorno della passione, all’amata insensibile e quindi insensata è inflitto un supplizio che ricorda l’orgia ferina delle Baccanti, un rito di sangue sotto gli alberi.
Con puntuale e macabra sollecitudine i due mastini immobilizzano la giovane, addentandole i fianchi.
Allora, il cavaliere bruno, sceso da cavallo, affonda la lama nella schiena; la colpisce alle spalle come farebbe un animale o un boia, strappandole cuore e viscere, per gettarli ai cani.

Simbolico banchetto dove sul piatto della colpa sono messi tanto i sentimenti rinnegati quanto gli istinti che non ebbero il coraggio di restare leali.
Ed ecco che, terminato il pasto, come appeso ad invisibili fili, il corpo martoriato della donna riprende forma e vigore. Si alza, piega le ginocchia e riprende a correre, nuovamente inseguita dai mastini, mai sazi, e dal cavaliere, giudice e vittima della propria e altrui colpa.
A mano a mano che il romore disperato della cacciata si allontana, la pineta torna alla sua frusciante immobilità, non più vuota e un po’ più silenziosa.




*

È in questo interregno d’attimi e sensi che Nastagio pietoso e pauroso ripercorre tutta la scena, tanto improvvisa e orrida da provocare una sorta di vertigine, lasciandolo sull’orlo di un precipizio.
Così, appena decide di muoversi, di uscire dall’ombra della pineta, i pensieri corrono a riallinearsi e affiora, semplice e cruda, la decisione.

Qui e di venerdì, offrirà un convito in onore della famiglia Traversari.
Saranno loro a farsi “cacciare”, a precipitare nel dramma, correndo all’indietro, ai giorni passati. E più veloce di tutti fuggirà la figlia, morsa a sangue nella sua alterigia.
Basterà la visione della caccia infernale a convertire il cuore della ragazza, a farle assaporare un destino diverso e qualsiasi. L’incubo diurno, il colpo di teatro segnerà la strada che dalla pineta riporta alle campagne e alla città dove la vita scorre continua se nessuno la devia e l’impaluda.


Ravello, settembre 2010

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