Cultura

La gente? Si disperde nei campi, balla, beve, ride, canta

Si svuotano coppe, una dopo l’altra, augurandosi un numero identico d’anni, mentre parole e gesti s’accendono, trasformando la letizia in baldanza. Una intensa prosa, "Alla foce del Numicio", di Nicola Dal Falco

17 luglio 2010 | Nicola Dal Falco



Alla foce del Numicio

Anna Perenna morta per acqua, quindi mutata. Scivolò anche lei nella scia di Enea, nel fato di Roma nascente. Era l’altra faccia della medaglia, rimasta in bilico dopo la morte della sorella Didone.
Capro espiatorio, lasciato vagare, del rogo che la grande regina eresse con rito negromantico per sé, per Enea e i suoi discendenti, prefigurando lo scontro finale tra Cartagine e la sua rivale.
Ma anziché alimentare la pira, unendosi al fuoco della vendetta, sarebbe scesa nei gorghi del fiume Numicio, tra le braccia di un pater, e da fiamma guizzante trasformata in onda.
Un cambio di energia, un’oblazione.
Ecco il racconto di Ovidio.

Mentre le navi troiane risalgono in nera fila il Tirreno, la città cade in mano ai cavalieri numidi. Cacciata dalla città, Anna torna a salutare un’ultima volta Didone; mescola lacrime e cenere, vi sparge sopra qualche ciocca di capelli, la saluta tre volte e per tre volte ne accosta le labbra. Un sapore più amaro del sale.
Non proprio lontano, dietro l’orizzonte, ci sono due isole: Cosira, arsa e sterile come la patria che si abbandona e Melite, il piccolo, ma fertile regno di Batto.
Augusto nella sua isola, rispettato e sincero, il re accoglie la donna in fuga. Sarà vanto e ornamento di questa corte marittima per tre anni, fino a quando il fratello Pigmalione, armi alla mano, non la reclama.

Con puntuale licenza, il mito sfugge alla regola della verosimiglianza e stringe nodi tra caso e azione. Per la seconda volta, la sorella fugge per mare e da Melite vorrebbe raggiungere Cameria, ma un’improvvisa tempesta l’abbandona lungo le coste laziali, più a sud, quasi sotto gli occhi di Enea.
Il quale si ritrova di fronte il proprio passato e la condizione stessa dell’errante. Turbato, tenta, allora, di convertire il fato, di mescolarne le impossibili dosi, ma restano troppo allusive quelle presenze.
Chiede a Lavinia, la nuova sposa, di accogliere la fuggitiva, quasi di mettersi al proprio posto, di colui cioè che può generare solo da un passato amaro.
Rapida giunge, allora, la notte, carica di messaggi: l’esule fenicia sa che deve fuggire, prima che Lavinia la sacrifichi, tolga di mezzo con la memoria l’ubiquità di un pensiero.
Cerca ancora scampo verso il mare e la sua linea indefinita per cadere nel fiume, attratta si direbbe dalla corrente che corre alla foce.
Solo allora troverà ragione all’andare in un perpetuo ondeggiare tra acque dolci e salate, presidiando come ninfa la soglia di un fiume, punto d’ingresso e d’uscita, approdo e difesa della nuova regalità.

È con il compimento del destino di Anna, rientrata in seno al mondo, pacificata come parte “mobile”, cardine stesso, che il racconto semina il suo vero scioglimento, anticipando la chiusura del cerchio; chiusura che salderà il prima e il dopo, in una circolarità di eventi e corrispondenze.
Prima di darne conto, è giusto ritrovare quel punto del giorno, più prossimo all’alba che al mattino, in cui i troiani battono la selva fino al mare in cerca della sorella di Didone.
L’acqua del fiume specchia già il chiarore del cielo e sulla riva più sguardi frugano tra i canneti fino a che la corrente non si divide, lasciando apparire una schiera di ninfe tra cui la stessa Anna.
S’intuisce una luce soprannaturale in questo quadro, dove i riflessi verde-azzurro sono appena orlati d’oro. Tra le pareti trasparenti, protetta da una quinta d’onde sollevate e silenziose, Anna parla e lo fa in un cambio di tono che è già oracolare:


Placidi sum nympha Numici;
Io son ninfa del placido Numicio
amne perenne latens Anna Perenna vocor
nascosta in queste acque perenni, mi chiamo Anna Perenna.


Ovidio, I Fasti Libro III 653, 654
(versione di Guido Vitali, Roma 1942)

Nascosta, ma non da sola come vedremo tra poco. Certo è che questo suo inabissarsi ha un che di fondativo, di espiatorio, una difesa insomma, armata dal tempo, in preparazione di un tempo venturo che s’inanelli al presente.
Nel giorno della sua festa, il 15 marzo, Ovidio racconta che la gente si disperde nei campi, balla, beve, ride, canta "tutto quello che ha imparato in teatro", improvvisa precari ricoveri, piantando quattro canne e stendendovi sopra la toga.
Si svuotano coppe, una dopo l’altra, augurandosi un numero identico d’anni, mentre parole e gesti s’accendono, trasformando la letizia in baldanza.

Immaginando la scena su di una spiaggia, questa potrebbe avere molti punti in comune con l’approdo di un popolo che, dopo una lunga navigazione, riassapori la gioia di ritrovarsi, uomini e donne, oltre il pericolo.
L’atmosfera di incontrollata allegria ritorna qualche verso più in là, quando il carattere antologico dell’opera spinge l’autore ad enumerare altre ipotesi sulle ragioni della festa in onore di Anna Perenna.
I canti e i balli lascivi delle donne, ad esempio, sarebbero da ricondurre al racconto di un inganno dove Marte, invaghito di Minerva, accetta che Anna faccia da mezzana, tranne poi scoprire che è proprio a lei che si unisce, inducendo al sorriso la dea armata e inorgogliendo la stessa Venere.
Ribaltamento, desiderio, riso, tutte manifestazioni vitali a cui Ovidio aggiunge ancora un indizio.
Per alcuni, Anna, altri non era che «una vecchia della suburbana Boville… povera ma molto attiva» che si dette da fare quando «la plebe, non ancora difesa dai tribuni, s’allontanò e pose stanza sulla vetta del Monte Sacro» .
E siccome «i viveri di cui si eran muniti erano venuti meno» lei «ravvolti i capelli canuti in un leggero fazzoletto, impastava con mano tremante semplice focacce, e al mattino le distribuiva, ancora fumanti al popolo, che le fu grato di quella larghezza».

In quello stesso fiume che, al tempo dei fatti, sfociava con ben altra portata, in una laguna, morirà per acqua anche Enea durante un ultimo scontro in difesa di Lavinium, fondata su un colle a breve distanza dalla spiaggia.
Re da tre anni, sparisce, affrontando i Tirreni, negli stessi flutti come era successo ad Anna. La sorella di Didone, che ne aveva percorso le orme fino a destinazione, e l’eroe, si ritrovano uniti in un talamo acquatico, finalmente aquietati dal peso della vendetta e dell’obbedienza alle mire divine.

Solo ora il tema dell’arrivo, che Virgilio tratterà come un ritorno, collegandosi al mito di Dardano, partito da Cortona per fondare Troia, diventa altro.
La doppia, numinosa scomparsa consacra la soglia, ne sigilla il ritmo d’apertura e chiusura, ponendola al riparo dal primo passo, compiuto il quale, il momento critico, panico, dello sbarco evolve in uno stabile possesso: Marte e Venere protetti da sguardi indiscreti, chiusi misticamente in una labile stanza d’acqua, per sempre avvinti nel laccio perenne delle correnti.

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