Cultura
Tecnica e tecnologia del vino italiano, per non dimenticare la storia
A volte gli atti dei seminari e dei convegni raccontano storie affascinanti, di come eravamo, per capire meglio dove siamo arrivati. Dagli atti dell'Accademia dei Georgofili, alcune interessanti riflessioni a partire da una lettura di Giorgio Gallesio sui vini del mondo datata 1839
02 settembre 2016 | Lucia Bigliazzi, Luciana Bigliazzi
Come annotava il segretario degli atti Celso Marzucchi nel verbale dell’adunanza ordinaria del 7 luglio 1839, il Georgofilo corrispondente Giorgio Gallesio dava lettura in quella sede di una sua memoria sui vini e sul modo di migliorare quelli toscani.
Il manoscritto, consistente in 16 carte di mano dello stesso Gallesio, conservato nell’Archivio Storico dell’Accademia dei Georgofili (segnatura: Busta 75.1097), trovò accoglienza anche sulle pagine degli “Atti” dei Georgofili (voce ufficiale dell’Accademia a far data dal 1791) nel volume 17 della collezione.
L’autore apriva la sua trattazione ricordando quanto poco si conoscesse intorno all’attenzione che il mondo antico aveva dedicato ai vini e alla vinificazione.
A suo vedere nei tempi andati erano prevalsi quei vini che egli definiva “Liquorosi”, anche se non scartava l’ipotesi della presenza di buoni “vini da pasto” che tuttavia egli valutava essere stati un genere di lusso presente solo alle mense dei più abbienti, oggetto tuttavia di una modesta “celebrità municipale” limitata cioè al luogo dove il vino era prodotto e consumato.
Per Gallesio una tale situazione era perdurata a lungo, anche se la Francia aveva iniziato assai presto a prodigare cure e attenzioni particolari ai vini da pasto per renderli “più generosi” e insieme “più gentili”.
Gallesio narrava in proposito che quando il papato aveva fatto rientro a Roma, sia il pontefice che i cardinali male si erano adattati alla crudezza e leggerezza dei vini romani tanto che dalla zona del Rodano giungevano carichi di vino destinati alla mensa papale, a quella dei cardinali e a quella di qualche nobile romano.
In epoche successive, risolvere il problema della perfezione dei vini da pasto e della loro “durevolezza” era stato per Gallesio il percorso obbligato per tutti quei Paesi che nel tempo si erano lanciati in una politica di conquista coloniale e che si trovavano perciò nella necessità di dover approvvigionare anche di vino i propri contigenti nelle terre lontane conquistate.
Per l’Italia, non avendo partecipato alle scoperte geografiche verso le quali invece altri Paesi avevano prodigato uomini mezzi e denaro, il problema in realtà non si presentò che molto tempo dopo.
Pertanto lo “schiarimento” del vino – operazione indispensabile per mirare alla qualità -non solo era stato a lungo esclusivo appannaggio delle “grandi piazze oltramontane”, ma aveva anche costituito una specie di “secreto” custodito con attenzione da parte dei vinificatori e commercianti di Spagna, Portogallo e Francia. Tuttavia, come ne aveva scritto nel 1772 Giovanni Mariti, alla fine questo segreto era in parte penetrato anche in Italia grazie all’attività commerciale del porto di Livorno dal quale partivano per tutta Europa i vini ottenuti dai mosti provenienti da Siracusa e da Cipro e lavorati in Toscana.
Il nostro Georgofilo, dopo aver passato in rassegna altri aspetti circa il mondo dei vini, tentando di dar loro anche una sorta di classificazione, si domandava da che cosa potesse dipendere l’inferiorità dei vini italiani, visto che la Natura generosa aveva dotato questa terra di tutte le condizioni per produrre ottimi, corposi e preziosi “vini da rosti”.
“E’ questo il problema che si tratta di sciogliere” declamava Gallesio; individuarne le cause sarebbe stato già molto ed in proposito egli avanzava alcuni suggerimenti proponendo in prima battuta la scelta delle uve, per passare poi a condannare la cattiva pratica toscana di “turbare la fermentazione del Tino” con il rivoltare continuamente il mosto; in terzo luogo Gallesio stigmatizzava “il sistema vizioso del Governo” atto solo “a sciupare tante uve preziose, le quali trattate da sole, [avrebbero fatto] un vino squisito”. Infine sollecitava l’operazione dello “schiarimento” in quanto unico mezzo per tamponare la decomposizione del vino.
Un’ulteriore riforma egli reclamava per l’ “enologia toscana”, quella cioè di “sostituire le bottiglie ai fiaschi” che a suo vedere andavano assolutamente banditi dalle cantine perché troppo fragili e perché disponevano il vino “al rinforzato” causa l’impossibilità di sigillarli perfettamente.
Il povero fiasco, cacciato dalle cantine da Gallesio subirà identica sorte nei primi anni del ‘900, quando, quasi “come serpe in seno” l’articolo 64 del Decreto del 31 gennaio 1909 (attuativo della Legge del 23 agosto 1890 sulla metrologia ufficiale), lo bandirà di fatto dalle tavole dei ristoranti, trattorie e locande.
Accorate e veementi le parole del Georgofilo Pestellini, incaricato dall’Accademia di stendere sull’argomento una relazione nella quale con durezza egli condannerà una norma che in seno conteneva la “proibizione assoluta del fiasco toscano”.
Ostracismo puro da parte del legislatore i cui provvedimenti offendevano e distruggevano “l’opera di secoli di questa povera Toscana “ compromettendo le “industrie … il commercio nazionale, e più particolarmente la intera e nobile Regione Toscana”
Fonte: Accademia dei Georgofili - georgofili.info
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