Cultura

A piedi nudi nelle favole

A piedi nudi nelle favole

Un madre, un figlio. In viaggio. Si parte ogni volta con nuovo entusiasmo e con una ritrovata serenità, nella consapevolezza che ogni avventura contribuisce a sedimentare il proprio bagaglio emotivo e caratteriale. Il mondo va toccato e respirato, e non solo sorseggiato attraverso il filtro della virtualità

09 giugno 2012 | Paola Cerana

Quando avevo quindici anni, l’età di mio figlio oggi, avevo già viaggiato un po’. Conoscevo il sapore dell’esotico e, animata da un’istintiva esterofilia, pensavo che avrei speso tutta la vita a vedere il mondo, tanto mi sembrava più affascinante quello che stava lontano rispetto a ciò che avevo vicino.

Allora, però, non mi rendevo conto di essere un fardello per i miei involontari compagni di viaggio. Un inconsapevole fardello, un’adolescente incompiuta e impreparata alla vita, accollata a lontani parenti che, per senso del dovere o di gratitudine verso i miei genitori (evidentemente disinteressati ai viaggi), accettavano di portarmi con sé durante le loro puntuali esplorazioni transoceaniche.

Non erano contrari alla mia presenza, forse, ma di certo indifferenti, visto che non ci univa né un autentico legame affettivo, né una reciproca simpatia, ma solo l’anagrafe. Si partiva col sorriso di circostanza e una pacca sulla spalla ma poi, una volta decollati, ecco che sorgeva un muro invisibile tra loro e me, che si dilatava per tutta la durata del viaggio. L’incomunicabilità tra di noi veniva comunque compensata dalla mia istintiva comunicazione con il ‘diverso’, dalla curiosità per lo ‘sconosciuto’, e le scoperte meravigliose che avrei fatto una volta arrivata a destinazione mi davano sempre un’impagabile soddisfazione.

Scoperte meravigliose ma talvolta, anche, dolorose.

Per esempio, le prime volte, non essendo stata informata che il sole scotta molto ai Tropici, mi bruciavo regolarmente, ostentando tuttavia indifferenza per non sentirmi ancora più ridicola. Oppure, non sapendo che i coralli irritano e che certi insetti non perdonano, mi è capitato di sperimentare ulteriori brucianti sofferenze, anch’esse taciute ma poi lenite da altre dolci carezze della Natura.

Scoprire che il plancton la notte brilla come le lucciole, che certi pesci volano a tratti come gli uccelli, che esistono granchi blu grossi come palle da football mi esaltava, amplificando a dismisura il mio stupore per questo mondo tanto vivace.

Insomma, incautamente abbandonata a me stessa, non per volontà ma per umana distrazione, ho imparato a muovermi con disinvoltura lontano da casa, illudendomi così di stare molto meglio altrove.

Camminare a piedi nudi su sabbie remote era, per me, come camminare a piedi nudi nelle favole, senza provare nostalgia di tornare indietro, con l’illogica fiducia che la favola successiva sarebbe stata ancor più bella. Così, non mi sono mai sentita spaesata lontano da casa.

Oggi le cose sono molto diverse. Le responsabilità si sono invertite e ho imparato ad amare ciò che mi circonda, scoprendo il valore profondo degli affetti famigliari. Questo aggiunge inevitabilmente una dolorosa nostalgia ad ogni partenza ma anche un’immensa gioia ad ogni ritorno. Mi sono interiormente riappacificata con me stessa e con chi mi ha cresciuto, anzi, sono riconoscente per tutte le esperienze che mi sono state offerte. Ora so che quelle spinte avrebbero rappresentato il mio futuro bene e ora ne faccio tesoro.

Dopo tanti anni e tanti viaggi alle spalle (non più condivisi con quei lontani parenti che ripenso col sorriso), parto ogni volta con nuovo entusiasmo e con una ritrovata serenità, consapevole che quelle prime avventure nel mondo sedimentano il mio bagaglio emotivo e caratteriale. Porto spesso con me mio figlio Gabriele, e ad ogni partenza colgo nei suoi occhi quella stessa luce che brilla in me. Anche lui, a quindici anni, ha già conosciuto parecchi aeroporti, spiagge, deserti e giungle e lo rivedo ancora muovere i suoi primi baldanzosi passi, equipaggiato di passaporto, di qualche frase in un primitivo inglese e di tanta curiosità.

E’ tempo d’Africa ora, la culla dell’Umanità. Insieme, lui e io, partiremo presto per una nuova avventura alla scoperta del Madagascar, di una parte almeno, visto che è un’isola molto grande. Sarà, tuttavia, un’esperienza sufficiente per farci assaporare un angolo di mondo a noi ancora sconosciuto, fatto di lemuri, tartarughe, baobab e di gente fiera, dignitosa e accogliente.

Ora, spero che anche quest’ennesimo viaggio convinca mio figlio che la vita è molto più di un comodo tran tran speso nella nostra ovattata quotidianità; che il modo va toccato, respirato e non solo sorseggiato attraverso il filtro della virtualità; che le nostre attuali incertezze economiche e sociali sono serie, è vero, ma che sono nulla rispetto alla realtà di chi poco o nulla ha; e che la gente lontano da noi ha sempre tanto da insegnarci, a partire dallo sguardo, basta imparare a guardare e, soprattutto, ad ascoltare. Perché la voglia di conoscere sconfiggerà sempre la paura di non sapere.

Ma, sopra ogni cosa, io spero che Gabriele trovi in me una vera compagna di viaggio. Un viaggio che durerà il più a lungo possibile e che lui, poi, proseguirà senza di me, sentendosi improvvisamente pronto e forte. In fondo, un po’ egoisticamente, nutro la speranza che mi sia grato un giorno di quest’iniziazione alla vita, con il segreto auspicio che lui abbia sentito in me ciò che, forse, io da piccola non sono riuscita a sentire a sufficienza in nessun adulto: un punto di riferimento chiaro, una guida affettuosa e fedele in cui specchiarsi senza smarrirsi.

Buon viaggio Gabri, si parte per una nuova favola!

 

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