Cultura

L'istante cinematografico nella pittura di Miria Malandri

Incontro con la pittrice forlivese, la quale ha dedicato un ciclo di opere dedicate alla filmografia di Michelangelo Antonioni, in esposizione fino al 26 febbraio presso la Casa del Cinema di Roma a Villa Borghese, nella mostra “The eyes of Michelangelo Antonioni”

11 febbraio 2012 | Rosa Maria Bertino

Un vecchio edificio alle porte di Forlì. Un piccolo cancello. Un giardino lungo e stretto immerso nella neve che ha coperto abbondantemente l’intera città.

Stiamo per entrare nella casa-atelier della pittrice forlivese Miria Malandri.

Ci aspetta sulla soglia, sorride e ci accoglie con i suoi occhi celestrini.

Davanti a noi l’ingresso, di fronte la cucina, a destra la camera, a sinistra la stanza dove dipinge. Il cavalletto, vuoto e imponente, cattura tutta la luce dalla finestra che guarda il giardino. A fianco un tavolino con un ammasso informe di tubetti di tutti i colori.

Mobili, mensole e librerie sono stipate di oggetti. Tutti hanno posato o poseranno per lei. E ora stanno lì, allineati sulle mensole, in riposo o in attesa.

Poi tele appoggiate a terra, dipinti alle pareti, vecchi strumenti musicali appesi, libri lasciati qua e là, locandine e messaggi fissati alle porte.

Tutto ha un significato che a noi sfugge, dietro ogni cosa si intuisce una storia.

Il tempo pare sospeso.

Tra i molti cicli pittorici che Miria Malandri ha realizzato nel corso degli anni, il cinema, insieme alle nature morte, è sicuramente quello più persistente. Dalle tele sulle pellicole della suspense a quelle sul cinema nella tradizione ebraica, dalle scene di film che hanno i libri come indiretti protagonisti fino alle ultime, in omaggio al grande regista ferrarese Michelangelo Antonioni, nel centenario della nascita. Un ciclo formato da 29 opere, esposte alla Casa del Cinema di Roma a Villa Borghese nella mostra “The eyes of Michelangelo Antonioni” aperta fino al 26 febbraio.

“L’idea di lavorare sul cinema di Antonioni - racconta Miria - è nata a fine 2010 dall’incontro con l’architetto e antiquario ferrarese Alberto Squarcia, che collabora con vari istituti di cultura italiana all’estero. Ho iniziato a lavorarci da poco più di un anno, ma non ho ancora terminato. Con altri sei mesi completerò il ciclo che comprenderà così 35-36 quadri.

Per queste scene tratte dai film catturo dei frame che rappresentano dei momenti apparentemente insignificanti, creando un parallelo con quelli della vita reale”.

Risalendo in senso contrario la poderosa corrente che dal cinema porta alla pittura, Miria Malandri con numerosi cicli delle sue opere ci riconduce al cinema. L’istante fermato nei suoi quadri è uno dei tanti piccoli gesti quotidiani e ordinari, che sulla tela si trasfigurano diventando speciali e straordinari.

Nel passaggio dal movimento cinematografico alla fissità della tela l’istante si condensa, si anima di tutto ciò che lo ha preceduto e si carica di tutto quello che verrà.

“L’idea del cinema – continua Miria - era presente da tempo, senza che me ne rendessi conto, fino a quando l’ho indirizzata sistematicamente, partendo da cose che mi ispiravano. Sul perché di tante scelte ho cercato di rispondere in vari modi, quasi di giustificarmi, perche la gente vuol sapere, sapere… Ma in realtà molte cose nascono con un filo diretto, con un colpo di fulmine, col vedere cose che molti non vedono”.

La sua visione sulle cose, sulle persone, sul mondo è tutta nel suo personalissimo fascio di luce.

La frase di Nietzsche che campeggia sulla porta dello studio ne è una conferma: “Ciò che contraddistingue le menti veramente originali non è l’essere primi a vedere qualcosa di nuovo, ma il vedere come nuovo ciò che è vecchio, conosciuto da sempre, visto e trascurato da tutti”.

Ripercorre il suo cammino artistico con semplicità disarmante, senza mai pronunciare il nome di ciò che è il suo pane quotidiano: la pittura.

“Già dal liceo classico - prosegue Miria - avevo questa idea. Così ho deciso di studiare disegno anatomico all’Università di Bologna per due anni. Andavamo all’Istituto Rizzoli, seguivamo interventi chirurgici. Questo studio mi ha dato una tecnica a strati che non ho mai abbandonato. Poi per un anno ho cercato, senza sapere cosa cercare. Non sapevo cosa fare, facevo quello che mi veniva in mente, dipingevo malissimo. Fino a quando un’idea è venuta e di lì tutto è partito. Ma oggi non saprei dire esattamente quale idea era. Pensai non ad un quadro ma ad un complesso di quadri. Quadri a tema, ispirati al teatro dell’assurdo, come una stufa all’aperto o cose del genere. E continuai così per un paio d’anni.

Poi la cultura del vedere, dell’attenzione ai problemi storici e sociali mi ha portato a dipingere opere sul femminismo.

Ho sempre avuto un’aria distratta, ma in realtà stavo attenta.

Altre tele sono nate dal desiderio di raccontare la mia infanzia attraverso materiale fotografico e cartoline. Con un salto più concettuale sono passata a dipingere quadri che riproducevano altre immagini, opere collegate da un percorso logico. Su questo filo è nato il tema del doppio, delle ripetizioni multiple. La stessa foto è ripetuta in due quadri. Il rapporto con lo spettatore è la ricerca della differenza. Ma la ricerca svela l’alterità del sosia: è uguale ma è diverso. L’ispirazione per il ciclo sui quadri rubati è nata invece sfogliando il catalogo dell’Arma dei Carabinieri sulle opere d’arte rubate.

In tutto questo tempo – conclude Miria - ho sempre continuato anche con le nature morte. Sono teatrini di oggetti. Oggetti che trovo nei mercatini delle pulci in giro per il mondo o che chiedo in prestito a qualche antiquario. Per me, che sono un po’ animista, le cose parlano, come scrive Remo Bodei nel bellissimo libro La vita delle cose”.

Ed ecco la provocatoria domanda che l’autore del libro pone al lettore: "Una scarpa, una lampada, un tagliacarte, una stufa, un copertone. Semplici cose - vendute, comprate, usate, e poi gettate in un cassetto, in un garage, in una discarica. Oggetti nudi, ancora nuovi o già logori, intatti o consumati, comunque destinati all'insignificanza e alla distruzione, dopo averci servito come schiavi di pelle, di plastica, di metallo. E' questo il destino delle cose? O esiste un altro sguardo su di esse, capace in qualche modo di riscattarle dal loro ruolo anonimo e inerte?”.

Miria Malandri risponde a modo suo.

A colpi di pennello, strato dopo strato, tela dopo tela, restituisce ad ogni oggetto la sua storia perduta e lo fa risorgere a nuova vita, eternandolo con l’arte.

 

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