Cultura

Il mare in un bicchiere

Un temporale improvviso, i primi scrosci d’acqua, l’odore della pioggia, la bellezza e lo stupore di fronte alle infinite epifanie della Natura. C’è tanta poesia anche in queste piccole e ordinarie cose della vita quotidiana. Gli haiku di Matsuo Bashō colmano la distanza tra noi e l'assoluto

16 aprile 2011 | Paola Cerana

Un improvviso temporale coglie di sorpresa quest’afoso pomeriggio di primavera. Seduta alla scrivania, davanti al mio computer, osservo il cielo tingersi d’un tratto da celeste a grigio cupo, scompigliato da nuvole sempre più gonfie e prepotenti. E anziché chiudere fuori i lampi con i primi scrosci d’acqua, spalanco la finestra, lasciando che l’odore della pioggia entri a volontà spinto dal vento, fino a riempire tutta la casa.

Ecco, vorrei saper scrivere poesie per immortalare istanti come questo. Ma che cos’è, dopo tutto? Niente di speciale, è solo un temporale! Eppure lo trovo bellissimo e sento che le mie parole sarebbero inadeguate rispetto allo stupore che mi suscita dentro. Respiro forte l’aria, assorbo l’energia che sprigiona dalla terra già pregna di nuova vita e penso a quale meraviglioso richiamo emotivo, quale straordinaria illuminazione mentale devono possedere alcuni poeti per riuscire a tradurre in versi ciò che sentono di fronte alle infinite epifanie della Natura.

L’odore acre della pioggia mi evoca il mare e per qualche strana associazione mi viene in mente una delle più belle definizioni di poesia, fatta da Italo Calvino: “La poesia – ha detto – consiste nel fare entrare il mare in un bicchiere”. Si può interpretare questa definizione in tanti modi: come un’immagine paradossale del lavoro del poeta, come allusione alla struggente impossibilità della parola a descrivere l’assoluto e anche, banalizzando, come un indiretto invito alla brevità del componimento poetico. Cosa, quest’ultima, per niente facile, perché forte è in genere la tentazione di caricare di parole, sostantivi, aggettivi, avverbi e fronzoli linguistici, un contenuto per renderlo più efficace. Mentre la brevità poetica, quella efficace, è virtù rara.

Personalmente, senza nulla togliere ai grandi poeti di casa nostra e malgrado la distanza culturale e linguistica che mi separa dall’estremo Oriente, sono molto sensibile alla poesia haiku, quella straordinaria lirica giapponese la cui caratteristica principale è appunto la brevità. Per esempio, di fronte all’improvviso spettacolo temporalesco che si sta offrendo ora ai miei occhi, un grande poeta giapponese che amo particolarmente, Matsuo Bashō, avrebbe semplicemente scritto:

 

Veloce è la nuvola

Mentre gravido

Di pioggia è il ramo

 

Ecco, questo è per me un esempio perfetto di mare nel bicchiere!

L’haiku è nato in Giappone nel sedicesimo secolo, quale derivazione del haikai, una specie di poema in versi formati da 17 sillabe (in realtà, si tratta degli ideogrammi giapponesi onj, tendenzialmente suddivisi in 5-7-5). In origine, la lirica era composta di cinque versi (tanka) e via via si è evoluta in una sorta di poesia a catena, suddivisa in due strofe rispettivamente di 5-7-5 e di 7-7 sillabe (renga).

Tradizionalmente, l’haiku era composto da un gruppo di poeti che si riunivano in luoghi deputati a questo scopo. Mi pare di vederli … nel silenzio di un tempio buddhista, all’ombra di un boschetto di bambù, nel rifugio di qualche valoroso samurai o nella capanna sperduta di un eremita in una notte gravida di luna. Funzionava un po’ come le disfide in vernacolo tra gli antichi rimatori di strada: il poeta guida, haiji, cominciava a proporre un verso in tre righe, detto hokku, che fissava un tema dominante da sviluppare in poema con l’apporto di tutti i poeti presenti, ciascuno dei quali contribuiva con un proprio hokku nel rispetto del tema e delle regole poetiche. Ben presto, sia pure con qualche libertà metrica, l’hokku si trasformò in un componimento autonomo, più flessibile e leggero, conosciuto oggi come haiku, nome datogli alla fine dell’Ottocento da un certo Masaoka Shiki. Ma il perfezionamento dell’haiku è avvenuto soprattutto grazie al più grande poeta giapponese (almeno per me), Matsuo Bashō, appunto, che ha reso la lirica sempre più raffinata, essenziale, aderente all’anima della Natura.

Con lui, il colore del verso ha raggiunto la perfezione, rifuggendo dai toni drammatici ed eccessivi, trovando quella quiete interiore (wabi) che consente di immortalare senza inutili fardelli le meraviglie del Creato. Bashō - che si definiva né monaco né laico ma una sorta di pipistrello, tra il topo e l’uccello - è considerato quasi un santo in Giappone, proprio per questa sua capacità di creare istantanee di vita che sintetizzano la bellezza delle cose semplici.

Per sua natura, l’haiku non ha soggetto: il poeta è umile, diventa servo, si leva completamente di mezzo e lascia che sia l’Essenza delle cose a parlare. Il soggetto è dato dalle scene rapide e intense delle stagioni che sbocciano, dagli animali che si rincorrono o fuggono, dai paesaggi che cambiano lungo il cammino e dalle emozioni che tutto ciò trasmette all'animo del poeta in un preciso istante. L'ultimo verso è, tradizionalmente, il cosiddetto riferimento stagionale (kigo), cioè un accenno al periodo o al mese cui la lirica si riferisce. La mancanza apparente di nessi tra i versi e lo sbalzo semantico tra le immagini narrate lasciano spazio ad un vuoto ricco di suggestioni, aperto all’interpretazione, all’umore e alla sensibilità di chi legge.

Se il concepimento dell’haiku è la contemplazione della Natura, il miracolo della nascita avviene quando la mente del poeta si svuota d’ogni pensiero intenzionale e accoglie dentro di sé la genuinità delle cose, l’energia vitale. La rivelazione incontra l’intuizione. Fiumi, laghi, prati, boschi, baie e montagne si animano della luce lunare, dell’odore della pioggia, del verso del cuculo, del vento d’autunno, del fragore delle onde, del battito d’ali d’una farfalla … E il poeta si fa tutt’uno con l’acqua, con il vento, con la pioggia, segue la Natura e la accoglie dentro sé diventandone parte. In questa comunione meditativa e solitaria, tipica della cultura Zen, i versi nascono da soli, come piccole immense illuminazioni estatiche. E il partouze che si crea tra il poeta e il lettore è aperto a sensazioni e significati sempre diversi, come fosse il sottotitolo al film dell’esistenza, la melodia che accompagna i momenti di meditazione, l’attimo di vita che diventa verso.

 

Antico stagno

Si tuffano le rane

Rumor d’acqua.

 

Di nuovo acqua, gocce, schizzi, note, minuscoli movimenti lirici … mentre fuori ancora un poco piove! Questo è un altro piccolo prodigio lirico di Bashō, forse il più noto: un istante in perenne trasformazione, un mondo fluttuante e colorato in cui le creature appaiono solo un attimo e subito scompaiono, come nelle favole, lasciando in chi le osserva un’impalpabile sensazione di transitorietà: quiete e moto si mescolano e si confondono nei versi, proprio come nell’umana esperienza.

Un improvviso temporale ha piacevolmente scomposto i miei pensieri in quest’afoso pomeriggio di primavera … e ora scema lentamente, portandosi via nuvole e vento e restituendo un nuovo azzurro al cielo. Mi affaccio alla finestra, tutto verdeggia di vita, di energia, e l’odore della terra bagnata insiste selvatico, penetra pungente nelle narici, mentre una timida farfalla osa riaprire le ali al calore di un ritrovato splendore …

 

Vola una foglia

Con ali altrui

Miracolo di primavera

 


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