L'arca olearia
Nel 2020 esisterà ancora l'olivicoltura italiana? E' tempo di suonare l'allarme generale
A dominare incontrastata sarà la Spagna. L'Unione europea descrive il lento declino che attende il settore oliandolo in Italia e Grecia. E' la fotografia di un paese che tira solo a campare, soprattutto grazie all'export
01 settembre 2012 | Alberto Grimelli
Le previsioni del Dipartimento Agricoltura e Sviluppo Rurale dell'Unione europea, pubblicate a fine luglio, segnalano che l'Italia oliandola si avvia verso il coma profondo.
Un'analisi ancor più preoccupante perchè il trend indicato dagli esperti dell'Ue si basa su dati storici e non su ipotesi e scenari più o meno attendibili. Continuando con questo andazzo nel 2020 l'Italia produrrà 470mila tonnellate d'olio d'oliva. Dando per buoni gli odierni dati ufficiali, ovvero una produzione di 540mila tonnellate, significa una riduzione produttiva del 12% in 8 anni.
Considerando che il consumo al 2020, anch'esso al ribasso, è stato valutato dall'Ue a 620mila tonnellate, significa che il nostro Paese continuerà imperterrito a produrre molto meno di quanto consuma. In altre parole saremo dipendenti dall'estero, ovvero dalla Spagna, per quanto riguarda l'olio d'oliva.
Già, perchè il toro iberico, nonostante la crisi, nonostante quotazioni ai minimi termini, non perderebbe un colpo, anzi approfitterebbe della crisi di Italia e Grecia per affermarsi come re incontrastato del settore.
I numeri spagnoli, se le previsioni degli analisti di Bruxelles si rileveranno esatte, fanno realmente impressione. La superficie olivetata dovrebbe incrementare sensibilmente, raggiungendo i 1,77 milioni di ettari, di cui quasi la metà irrigui. La produzione è stimata così salire fino a 1,86 milioni di tonnellate nelle annate di carica e 1,4 milioni in quelle di scarica. I consumi degli spagnoli dovrebbero crescere e attestarsi sui 13 Kg/pro capite/anno, per un consumo interno complessivo di 632 mila tonnellate. Consumeranno più degli italiani ma avranno comunque da vendere più di metà della propria produzione all'estero, soprattutto fuori dai confini comunitari.
L'Italia, nel frattempo, tenterà ugualmente di tenersi a galla grazie all'export che dovrebbe salire di qualche punto percentuale, oltrepassando le 350mila tonnellate entro il 2020. Stabili dovrebbero rimanere le importazioni, intorno alle 500mila tonnellate. Quello che perderemo in consumi interni lo guadagneremo in export ma non ci sarà alcun incremento dei volumi commercializzati, segno evidente di un settore alla frutta.
Meglio di noi anche la Grecia. La nostra olivicoltura dovrebbe continuare ad attestarsi su 1,14 milioni di ettari mentre le superficie olivetata greca dovrebbe crescere fino a 767mila ettari. Solo un impiego ridotto dell'irrigazione dovrebbe quindi portare a una riduzione prospettica della produzione annuale, prevista in calo del 10% entro il 2020, a 270mila tonnellate.
Uno scenario talmente nero che porta inevitabilmente a chiedersi se esisterà ancora un'olivicoltura italiana di qui al 2020.
Non è più neanche tempo di allarme, ormai occorre un po' di sano allarmismo.
Non è più questione di salvare qualche olivo secolare o qualche migliaio di stanchi e vecchi olivicoltori hobbisti.
Il problema è proprio salvare il settore oleario del nostro Paese.
La Spagna continuerà a svilupparsi perchè le sue aziende, ivi compresi gli industriali e gli imbottigliatori, continueranno ad avere un ampio e crescente bacino produttivo a cui attingere. 200mila tonnellate di export in più in 8 anni, secondo quanto stima Bruxelles, significano un fatturato potenziale, a 2 euro/kg, di 400 milioni di euro. Si tratta di soldi che verranno spesi in Spagna, investiti in Spagna, che creeranno occupazione in Spagna.
L'Italia continuerà a boccheggiare perchè ormai ha esaurito le sue risorse produttive e il mito della crescita basata sull'importazione della materia prima (olio sfuso) per l'esportazione del prodotto finito (olio imbottigliato) si è rivelata una chimera. Chi ha le risorse imparerà a sfruttarle a dovere e, presto o tardi, creerà da sé valore aggiunto, senza attendere che lo facciano gli altri. E' quanto accaduto, e sta accadendo, nel settore siderurgico. Una storia che si ripete in quello oleario. La Spagna ha acquisito i marchi italiani per la fase di start up, di avviamento, ma ora sta invadendo i mercati, soprattutto quelli emergenti, con i propri brand. Della serie: impara l'arte e mettila da parte.
Occorre reagire e farlo in fretta, magari imparando proprio qualcosa dalla Spagna: senza olivicoltura non c'è neanche settore oleario.
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Stefano Polacchi
05 settembre 2012 ore 17:18Perfettamente d'accordo con l'analisi di Grimelli. Il punto è capire dove si vuole andare e come ci si vuole andare. Mi ha fatto piacere la recente intervista di Alberto alla senatrice Colomba Mongiello sulla norma che tutela la qualità degli oli di oliva made in Italy. Quindi la prima cosa da capire è - come è stato e continua ad essere per il vino - si punta su qualità o quantità. La Spagna dei grandi numeri ha deciso quale è il suo gioco. Ma il nostro? Imparare sì, ma non copiare o seguire! Su una cosa comunque Alberto ha ragione: senza olivicoltura non c'è settore oleario. Drammatica, per quanto semplice, considerazione! Allora, come si ricostruisce l'olivicoltura in Italia? Certo, il modo in cui si pianta, si impianta, si produce, già segnala la via che si vuole seguire. Se negli anni '80-'90 alcune scelte e alcuni finanziamenti fossero stati indirizzati diversamente, o quantomeno su una linea di percorso (che non c'è mai stata) forse oggi avremmo un'olivicoltura, ma anche un'agricoltura diversi. Il folklore serve a poco. L'ostentazione dei fiscoli che ancora si fa in zone come la Liguria non ha molto senso, in questo discorso. Per quanto sia invece importante, sia a livello di immagine, che di paesaggio che di economia, la realtà olivicola ligure. Ma anche la veneta. Per non parlare della pugliese, dove davvero non si tratta di difendere i famosi 75!
Ma allora? Da dove si comincia? Forse dalla terra? Forse dal non penalizzare sempre chi coltiva e produce? Magari alleviandoli non tanto da investimenti, quanto da appesantimenti burocratici ridicoli? Ne ricordava prima di agosto qualcuno proprio Grimelli, a proposito di etichette e di dizioni obbligatorie!
Io credo che sarebbe uile, ma utile davvero, un primo passo indispensabile: cercare di unire i produttori medio-piccoli, quelli che hanno un contatto diretto con olive e territorio, su alcuni modelli e obiettivi minimi, ma importanti. E credo che sia giunto il momento di pensare bene, na davvero, a come investire i pur pochi soldi che restano. Soprattutto da parte delle istituzioni: basta finanziamenti a pioggia, raggruppare progetti simili, far lavorare insieme le associazioni, privilegiare obiettivi condivisi... Altrimenti davvero non c'è futuro, se non per il folklore...
Stefano Polacchi