L'arca olearia

Dibattito sull'olivicoltura italiana: meno zen e più concretezza

Intorno a quanto emerso a seguito della presentazione del nostro Manifesto per il risorgimento dell'olio italiano, e a quello successivo presentato da Slow Food, interviene, sul blog "Alta Fedeltà", Stefano Tesi

30 aprile 2011 | T N

Caro Luigi,
come sai seguo sempre con passione e coinvolgimento – anche se, per varie ragioni, in modo forse più silenzioso di prima – tutti i dibattiti che ruotano attorno all’olio di oliva e all’olivicoltura.
Leggendo il tuo articolo di oggi su TN (“Salviamo l’olivicoltura italiana”) mi si sono addensate in testa tutta una serie di considerazioni, che ti offro.


Senza entrare nel dettaglio delle diverse posizioni, c’è una cosa che mi allarma. Da qualunque prospettiva venga affrontato l’argomento, i temi finiscono per convergere sempre su un punto, a mio avviso fuorviante: la strumentalità della coltivazione dell’olivo e della produzione dell’olio rispetto a qualcosa. Alla salvaguardia del paesaggio, ad esempio. Alla tutela della tradizione. Alla difesa del reddito. Al sostegno dell’economia (rurale e non). Alla garanzia della qualità degli alimenti. Alla certificazione dell’origine.
E potrei andare avanti.


Tutte cose giuste, per carità.
Ma credo che per questa strada non si arrivi da nessuna parte. E si cada nell’ipocrisia retorica (o nella retorica ipocrita) che accompagna tante altre analoghe, stucchevoli campagne alle quali da anni stiamo assistendo, tipo quella del “mestieri scomparsi”: dove si gabella l’idea oleografica (di per sé anche culturalmente valida, non lo discuto) che salvare gli ultimi maniscalchi, o gli ultimi bronzisti, o gli impagliatori superstiti crei sic et simpliciter un volano, un’economia. O aiuti a sostenerne una. O giustifichi, anzi sorregga l’esistenza di qualcosa.
Ma quando mai.


Ecco, con l’olio e l’olivo succede lo stesso.
Certo, è ovvio che tradizione, qualità, paesaggio e tutto quanto sopra sono valori importantissimi.
Ma un settore produttivo non può vivere solo “in funzione” di qualcos’altro.
Affinché il comparto oleicolo sopravviva nella sua magnifica diversità fatta di grande e di piccolo, di intensivo e di estensivo, di marginale e di specializzato, di dopolavoristico e di professionale, di collina e di pianura, di nicchia e di massa, di monovarietale e di multivarietale occorre che abbia un senso più ampio, una propria ragione di esistere. Che non sia cioè solo museo o nostalgia o frutto di un accanimento terapeutico, ma realtà. Che abbia sua intrinseca capacità di vita quotidiana, ovvero logica ed economica insieme. Ove male e ove bene, ove meglio e ove peggio, d’accordo. Ma nella realtà, altrimenti si fa solo accademia.


Non credo affatto, per capirsi, che l’olivicoltura imprenditoriale, premessa inevitabile ad una virata capitalistica e industriale (quindi fatalmente antirurale), sia l’unica via percorribile. Ma non credo neppure all’olivicoltura zen, idealistica, ideologica perfino, che si sente predicare in giro. Nemmeno i monaci medievali, nemmeno i mistici praticavano l’agricoltura a perdere: essa era esercizio spirituale, sì, ma anche fonte di sostentamento. I due piani finivano per sovrapporsi. Quindi non vedo perché, nel mondo materialista e interconnesso di oggi, dovrebbero praticarla gli agricoltori, inseguendo il sogno etico di un’olivicoltura a priori.
Mi dirai: e allora? Dove vuoi arrivare?


Le mie potranno sembrare banalità, ma non credo che lo siano. L’olivicoltura italiana – quella che mi sforzo di considerare ancora l’olivicoltura per eccellenza, la più antica, la più ricca, la più variegata, la più complessa, la migliore insomma e nonostante tutto – non ha bisogno di sola teoria o di solo materialismo, ma di sana materialità. Cioè di concretezza. Di una ragione anche “pratica” di esistere: offrire un reddito ragionevole (che non è per forza un profitto), una gestibilità ragionevole, prospettive di sopravvivenza (dello “sviluppo” chi se ne frega) ragionevoli, un fabbisogno di sforzi, fatica e passione ragionevole.


Visto dal punto di vista del buon padre di famiglia ciò è molto semplice, quasi implicito.
Diventa difficile quando va in mano a soloni, moralisti, politici, teoreti, pubblici amministratori, burocrati e manager.
Per favore,usciamo da queste secche.
Buona Pasqua,

Stefano Tesi

 Da "Alta Fedeltà", 22 aprile 2011

 

Grazie Stefano, parole sagge, che in pochi si sforzeranno di comprendere.

Uscire dalla secche della retorica e dell'ipocrisia? Sarebbe un bel guadagno per tutti. Chissà, se un domani...

Dubito, si proseguirà a raccontare belle storielle, edificanti, ma senza ritorni per il futuro.

Intanto una notizia: forse perderemo il gruppo Salov di Lucca, della famiglia Fontana: l'olio Sagra e l'olio Berio, per intenderci.

Gli acquirenti possibili? In cima alla lista la portoghese Sovena e la spagnola Sos. E noi? Perdendo un pezzo dopo l'altro, stiamo intanto a guardare, tuffandoci e rimestandoci nella retorica.


A tutti consiglio di leggere il commento che appare in coda all'articolo di Teatro Naturale in questione, è un commento a firma di Massimo Occhinegro.

Intanto, grazie come sempre Stefano, buona Pasqua anche a te,

Luigi  Caricato

 

IL COMMENTO DI MASSIMO OCCHINEGRO

Riportiamo per comodità dei lettori anche qui, il commento postato nell'articolo "Salviamo l'olivicoltura italiana" da Massimo Occhinegro.

Alcuni doverosi appunti al manifesto di Slow Food:


1)Si ritiene ad esempio, che tutto l'olio extra vergine pugliese debba essere confezionato dagli olivicoltori in accordo con i frantoiani....Perché:

2) Si dimentica che buona parte è lampante e c'è anche la sansa. Entrambi i prodotti costituiscono categorie merceologiche esistenti quali l'olio di oliva e l'olio di sansa. Non si capisce bene che se ne debba fare. Inoltre si esclude quella che volgarmente vine chiamata industria, che compra l'olio dai frantoiani o dalle aziende agricole del territorio e che storicamente ha lanciato il prodotto in Italia e soprattutto all'estero, tanto da far comprare agli spagnoli importanti nomi nazionali;

3) Si dimenticano i numeri dell'olivicoltura italiana. Si stima un consumo italiano di 700.000 tonnellate dio olio a fronte di una produzione di olio italiano di 250.000 tonnellate. Quindi "l'olio omologato" è frutto del taglio di oli di provenineza europea, per la maggior parte Spagnola. Il fatturato del settore olio è prevalentemente "industriale". Grazie a tali fatturati è possibile garantire i redditi di tante famiglie. D'altra parte si dimentica che esiste un caffè, torrefatto all'italiana, venduto come italiano o la pasta composta anche da grano di origine canadese. Per il consumatore necessità una education in modo tale che la sua scelta d'acquisto sia sempre più consapevole. Il prodotto DOP italiano esiste da tempo ma copre solo una bassissima percentuale dei consumi. Ciò significa che per quanto consapevole possa essere la scelta del consumatore, quello che guadagna 1500 euro al mese (se va bene) continuerà a comprare l'olio al prezzo più basso , nonostante l'education. L'impiego in cucina è ben più alto del consumo di vino ad esempio ed una famiglia tipo non si può permettere anche volendo un prodotto buono ma caro, così come, pur apprezzando la mercedes o l'audi, la vede solo su quattroruote, non potendosene purtroppo permettere l'acquisto.

4) Siamo d'accordo, ma occorrerebbero degli sforzi per far remunerare questo capitale di cui disponiamo. L'istituzione di parchi con ulivi secolari con l'indicazione della loro presunta età e guide turistiche relative, potrebbero essere un esempio;

5) Il panel test è una buona guida. Tuttavia spesso a condurlo sono assaggiatori "neo patentati" senza un minimo di esperienza , con una preparazione da "bigini".

6) E come ci si comporterebbe di fronte ad un eccellente olio spagnolo, o greco, o australiano o cileno? Quali potrebbero essere le note distintive che farebbero ritenere un olio italiano "superiore"?

7) Anche qui si opera un distinguo tra olio "industriale" ed olio "agricolo". A parte l'uso di oli deodorati da parte di qualcuno, mi pare che l'"industria" compri l'olio esattamente da chi lo produce, quindi aziende agricole o frantoi ...provare per credere, chiedete ai mediatori ad esempio. E' giusto però che i ristoranti ecc. prediligano l'uso di oli di oliva per tutti gli usi; dal buon extra per la cucina e per l'uso a crudo, od anche all'olio di oliva ad esempio per la frittura e perchè no, anche la sansa che è meglio dell'olio di arachidi o dei tanti olii "per friggere" nel mercato. L'olio cattivo fa male alla salute.

Massimo Occhinegro 


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Joe Black Mill

01 maggio 2011 ore 08:44

Un'altra grande azienda olearia italiana rischia di lasciare il settore andando in mano agli spagnoli o ai portoghesi. Un richiamo a Cecco Angiolieri è d'obbligo, soprattutto per l'ultima strofa.
S'i fosse fuoco, arderei 'l mondo;
s'i fosse vento, lo tempestarei;
s'i fosse acqua, i' l'annegherei;
s'i fosse Dio, mandereil' en profondo;
s'i fosse papa, allor serei giocondo,
ché tutti cristiani imbrigarei;
s'i fosse 'mperator, ben lo farei;
a tutti tagliarei lo capo a tondo.
S'i fosse morte, andarei a mi' padre;
s'i fosse vita, non starei con lui;
similemente faria da mi' madre.

Si fosse Cecco com'i' sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
le zoppe e vecchie lasserei altrui.