L'arca olearia 23/04/2011

Salviamo l’olivicoltura italiana

Salviamo l’olivicoltura italiana

Cresce l’attenzione per il comparto oleario. Dopo il Manifesto per il risorgimento dell’olio italiano di Teatro Naturale, presentato a Trieste in occasione di Olio Capitale, anche Slow Food ne ha proposto uno al Sol di Verona


Si intitola “Manifesto Slow Food in difesa dell’olivicoltura italiana” ed è stato presentato a Verona in aprile, in occasione della manifestazione fieristica Sol. E’ una iniziativa senza dubbio lodevole, perché pone l’attenzione a un comparto che nessuno più prende nella dovuta considerazione, a partire dalle stesse istituzioni.

E’ una iniziativa che segue a ruota quella che il settimanale Teatro Naturale ha lanciato il 18 marzo scorso a Trieste, in occasione anche in questo caso di un altro salone espositivo dedicato agli extra vergini tipici e di qualità, Olio Capitale.

La proposta di Teatro Naturale è frutto di un documento che era stato a sua volta l’esito di un progetto nato nel 2007 e che continua a puntare a unire anziché dividere tutti gli attori della filiera, senza creare con ciò squilibri ma solo occasioni di dialogo per rendere più forte e competitiva la nostra olivicoltura un po’ malconcia per le dissennate politiche degli ultimi decenni. Da qui dunque la genesi del manifesto per il risorgimento dell’olio italiano.

Passando invece alla proposta del movimento cui fa capo Carlo Petrini, gli elementi cardine su cui fanno perno i sette punti del Manifesto Slow Food sono sintetizzabili nella tutela della biodiversità, oltre che nella tutela delle identità, delle tradizioni delle comunità del cibo e delle economie locali, il tutto in linea con il pensiero espresso dal movimento di Bra sin dai suoi esordi. Intenzioni che francamente sono oltremodo condivisibili, e per le quali ogni persona di buona volontà si propone di perseguire.

A far scaturire in particolare la necessità di redigere e lanciare un Manifesto, è stato soprattutto il più volte annunciato pericolo che incombe sull’olivicoltura italiana. Si scopre così che la minaccia per il nostro comparto olivicolo verrebbe espressamente dalla “industrializzazione della coltura a livello mondiale”. L’olivo, di conseguenza, secondo gli estensori del Manifesto di Slow Food deve rimanere nell’ambito di una visione tradizionalistica, quella a tutti nota degli alberi secolari, ispirata a sistemi di produzione che non siano quelli proposti da una olivicoltura orientata esclusivamente al reddito più che al mantenimento e alla tutela del paesaggio.

Fin qui credo che in tanti possano concordare sul fatto che l’olivicoltura tradizionale, seppure rivisistata nella sua formulazione, rendendola più moderna e razionale, debba in oni caso continuare a esistere. Lo scorso anno, tra l’altro, proprio al Sol di Verona ci fu la presentazione del “Manifesto in difesa della purezza e della genuinità dell’olio extra vergine di oliva Dop Riviera Ligure”, i cui si dichiarava la “centralità del territorio” una “scelta etica”. Mi permetto – visto il potente messaggio che era stato espresso nel Manifesto del Consorzio Dop Riviera Ligure – di riportarne un brano fondamentale per capire il senso dell’olivicoltura italiana: "Dietro ogni goccia d’olio, c’è la solerte operosità degli agricoltori nel coltivare la terra, pur in condizioni impervie ed estreme, da veri paladini del territorio. Senza di loro il paesaggio sarebbe diverso. Scegliere un extra vergine dalla provenienza certa significa sostenere anche l’impegno di chi lotta contro l’erosione dei suoli”. Ebbene, dalla lettura solo di questo passaggio si comprende bene come sia urgenete e necessario agire concretamente per il bene dell’olivicoltura, ma senza commettere errori o imprudenze, senza soprattutto andare contro il progresso.

Fin qui la bellissima e felice esperienza del Manifesto del Consorzio Dop Riviera Ligure. Passando invece al Manifesto Slow Food, mi viene spontaneo riflettere su alcune questioni assai delicate sulle quali non si può in alcun modo sorvolare.

Leggendo i sette punti della dichiarazione di intenti di Slow Food, sembra di capire che i veri nemici dell’olivicoltura italiana siano gli “impianti superintensivi” e la “meccanizzazione spinta”, ovvero le conseguenze del progresso scatenato dalle nuove olivicolture. Conseguenze a quanto pare nefaste perché hanno “reso gli oli italiani di eccellenza non più competitivi, relegandoli ai margini di un mercato in cui prevale l’offerta di grandi quantità di prodotto a basso prezzo perché di bassa qualità”.

Ora, senza la necessità di fare le pulci su ogni aspetto messo in evidenza nel Manifesto Slow Food, un interrogativo che mi viene spontaneo rivolgere agli estensori del testo è il seguente: se il nemico da abbattere è il sistema superintensivo, quali soluzioni occorre prevedere per uscire da questa situazione? Impedire per esempio che altrove vi sia un’olivicoltura intensiva o superintensiva? O impedire che in Italia si proceda con nuovi impianti olivetati ispirati alle linee produttive che puntano espressamente ad abbattere i costi di produzione?

Mi interessa conoscere la risposta.

Nella premessa che accompagna i sette punti del manifesto Slow Food si dice esplicitamente che per “mantenere in vita l’olivicoltura italiana di qualità occorre puntare sull’altissimo valore che questa produzione possiede in termini ambientali, nutrizionali, salutistici, di paesaggio, di turismo, di cultura”. Fin qui, come già chiarito, nessuno può dichiararsi contrario a tale proposito.

Ma quando si legge che sul “mercato globale l’olio extra vergine di oliva è spesso un prodotto omologato ottenuto dalla miscelazione di oli di diversa provenienza, privo dunque di un legame con un territorio di origine” non capisco dove sia il problema, soprattutto se l’etichetta aiuta in tal senso. Oltrettutto tali blend consentono a coloro che sono in seria difficoltà economica, con pensioni inferiori ai 500 euro, di poter comunque acquistare un olio extra vergine di oliva, anziché dover optare per un olio di seme. Ciò che importa, è che tale olio extra vergine di oliva abbia le caratteristiche previste dalle legge, che sia cioè un prodotto genuino e non contraffatto.

Ci sono tanti punti che a me piacerebbe discutere assieme con Slow Food. Lo so che sono stato severo nel giudizio nei confronti di Carlo Petrini, ma, d’altra parte, per il ruolo e la professionalità che mi competono, non potevo certo far passare sotto silenzio un errore madornale di chi, come Petrini, l’olio non lo conosce e non lo ha mai studiato. L’aver affermato che il Regolamento Ue 61/2011 lede i consumatori e produttori onesti, è stato un messaggio oltre che erroneo anche grave, perché ha lanciato un inutile allarme tra i consumatori, banalizzando così il lavoro onesto e serio di chi, come me, come Teatro Naturale, e tante altre persone di buona volontà, ogni giorno lavorano – senza ricevere prebende dallo Stato o da finanziatori occulti – per promuovere il consumo consapevole dell’olio extra vergine di oliva.

Cosa consiglio dunque a Petrini e ai suoi simpatizzanti? Di ritrovarci e discuterne assieme. Ha senso avere presentato due Manifesti se poi l’obiettivo comune – come mi sembra di capire – sia l’avere a cuore un prodotto nobile e davvero unico come l’olio estratto dalle olive? Ha senso creare timori, incertezze e confusione tra i consumatori anziché lavorare per risollevare concretamente le sorti dell’olivicoltura italiana?

Io, caro Petrini, mi occupo di agricoltura, e in particolare di olio, perché ho inteso, attraverso il mio instancabile impegno quotidiano, rendere un servizio utile al mondo agricolo – un mondo di persone senza voce per colpe altrui o proprie poco importa – comunque troppe volte bastonato senza avere la giusta remunerazione. Ecco, mi creda, io non lavoro per fare proseliti o cercare consensi e puntare a chissà quale poltrona, faccio il mio lavoro perché ci credo, perché ha un senso lasciare qualcosa di utile a chi verrà dopo. Io non parlo e non scrivo per altri fini che non siano il bene comune e condiviso da tutti, e allora perché non riprendiamo il senso delle cose ed evitiamo di fare del male a un’agricoltura che sta perdendo pezzi da ogni parte, soprattutto per colpa di un’ideologia che porta a negare ogni forma di dialogo e di sano confronto dialettico tra le varie parti.

 

IL MANIFESTO SLOW FOOD IN DIFESA DELL’OLIVICOLTURA ITALIANA

> Noi affermiamo che l’olio è un prodotto agricolo e come tale è subordinato alla/e varietà coltivata/e, alle peculiarità dei terreni e dei climi, alle tecniche produttive che ne influenzano e ne sanciscono l’individualità. Quindi è nel luogo di produzione agricola, inteso come territorio, che si deve svolgere l’intero ciclo di filiera, dall’oliveto alla bottiglia, all’interno di un sistema di relazione tra olivicoltori e frantoiani.

> Facciamo appello a che la filosofia produttiva e di consumo privilegi la qualità e l’origine, unico modo per distinguere i nostri oli dal prodotto anonimo e omologato che domina il mercato italiano dell’extravergine. Solo così la grande biodiversità di cui è costituita l’olivicoltura italiana può risultare vincente.

> Vogliamo difendere un’olivicoltura attenta alla tutela dell’ambiente e del paesaggio (non si può alienare un capitale così importante e simbolico) e capace di valorizzare il ricco patrimonio varietale del nostro Paese.

> Affermiamo che gli oli extravergini devono essere organoletticamente pregevoli, in grado di valorizzare le differenze varietali, indissolubilmente legati alle origini e quindi al territorio di provenienza. I parametri di qualità per “l’olio agricolo” non possono essere legati solo a risultanze analitiche, ma dovranno comprendere attributi che riguardano il tracciamento della storia produttiva dell’olio lungo la filiera.

> Ci impegniamo attraverso l’attività educativa e la comunicazione a sviluppare e/o ricostruire la cultura dell’olio, in linea con i concetti sopra espressi.

> Invitiamo tutti coloro che utilizzano quotidianamente l’olio (dai cuochi alle massaie, alle mense scolastiche, agli ospedali…) a sostenere le ragioni di questo manifesto, ponendo in essere abitudini di acquisto consapevoli, che distinguendo tra prodotto industriale e prodotto agricolo favoriscano quest’ultimo.

> Noi saremo al fianco dei produttori che vorranno attivarsi in difesa di una produzione etica che sappia valorizzare il ruolo e il prodotto dell’olivicoltura italiana con le sue molteplici identità territoriali.

 

di Luigi Caricato

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Commenti 1

massimo occhinegro
massimo occhinegro
28 aprile 2011 ore 19:59

Alcuni doverosi appunti al manifesto di Slow Food:
1)Si ritiene ad esempio, che tutto l'olio extra vergine pugliese debba essere confezionato dagli olivicoltori in accordo con i frantoiani....Pecche:
1) si dimentica che buona parte è lampante e c'è anche la sansa. Entrambi i prodotti costituiscono categorie merceologiche esistenti quali l'olio di oliva e l'olio di sansa. Non si capisce bene che se ne debba fare. Inoltre si esclude quella che volgarmente vine chiamata industria, che compra l'olio dai frantoiani o dalle aziende agricole del territorio e che storicamente ha lanciato il prodotto in Italia e soprattutto all'estero,tanto da far comprare agli spagnoli importanti nomi nazionali;
2) Si dimenticano i numeri dell'olivicoltura italiana. Si stima un consumo italiano di 700.000 tonnellate dio olio a fronte di una produzione di olio italiano di 250.000 tonnellate. Quindi "l'olio omologato" è frutto del taglio di oli di provenineza europea, per la maggior parte Spagnola. Il fatturato del settore olio è prevalentemente "industriale". Grazie a tali fatturati è possibile garantire i redditi di tante famiglie. D'altra parte si dimentica che esiste un caffè, torrefatto all'italiana, venduto come italiano o la pasta composta anche da grano di origine canadese. Per il consumatore necessità una education in modo tale che la sua scelta d'acquisto sia sempre più consapevole. Il prodotto DOP italiano esiste da tempo ma copre solo una bassissima percentuale dei consumi. Ciò significa che per quanto consapevole possa essere la scelta del consumatore, quello che guadagna 1500 euro al mese (se va bene) continuerà a comprare l'olio al prezzo più basso , nonostante l'education. L'impiego in cucina è ben più alto del consumo di vino ad esempio ed una famiglia tipo non si può permettere anche volendo un prodotto buono ma caro, così come, pur apprezzando la mercedes o l'audi, la vede solo su quattroruote, non potendosene purtroppo permettere l'acquisto.
4) siamo d'accordo, ma occorrerebbero degli sforzi per far remunerare questo capitale di cui disponiamo. L'istituzione di parchi con ulivi secolari con l'indicazione della loro presunta età e guide turistiche relative, potrebbero essere un esempio;
5) Il panel test è una buona guida. Tuttavia spesso a condurlo sono assaggiatori "neo patentati" senza un minimo di esperienza , con una preparazione da "bigini".
6) E come ci si comporterebbe di fronte ad un eccellente olio spagnolo, o greco, o australiano o cileno? Quali potrebbero essere le note distintive che farebbero ritenere un olio italiano "superiore"?
7) Anche qui si opera un distinguo tra olio "industriale" ed olio "agricolo". A parte l'uso di oli deodorati da parte di qualcuno, mi pare che l'"industria" compri l'olio esattamente da chi lo produce, quindi aziende agricole o frantoi ...provare per credere, chiedete ai mediatori ad esempio. E' giusto però che i ristoranti ecc. prediligano l'uso di oli di oliva per tutti gli usi; dal buon extra per la cucina e per l'uso a crudo, od anche all'olio di oliva ad esempio per la frittura e perchè no, anche la sansa che è meglio dell'olio di arachidi o dei tanti olii "per friggere" nel mercato. L'olio cattivo fa male alla salute;