Editoriali

Il volo di Icaro

22 marzo 2008 | Sossio Giametta

Il volo di Icaro è il simbolo dell’aspirazione dell’uomo all’alto, aspirazione insopprimibile, ma destinata fatalmente alla frustrazione. Anche oggi, dopo che l’uomo è atterrato sulla luna, il volo di Icaro, con la caduta finale, può rimanere il simbolo della filosofia, che sempre di nuovo spicca il suo volo audace, e sempre di nuovo ricade, dopo breve tragitto, sulla terra o nel mare. Ma perché avviene ciò? Per due ragioni, una soggettiva, il titanismo, e una oggettiva, l’insuperabilità dell’oggetto: due ragioni che si congiungono e ne fanno una sola.

Lo slancio con cui sempre di nuovo la filosofia affronta l’enigma del mondo, è lo sforzo titanico dell’uomo di inglobare il mondo nella sfera intra-umana, antropomorfica, che è quella della sua conoscenza. Ma ciò equivale a pretendere, come contenuto, di contenere il contenente, come creatura, di contenere il creatore, come natura naturata, di contenere la natura naturans.

È uno sforzo immane, contro natura, inevitabilmente destinato al fallimento. D’altra parte, la realtà che la filosofia investe e vuole penetrare, addirittura esaurire, è tutt’altro che docile ai suoi inviti o alla sua presa, ai suoi tentativi di penetrazione e di possesso, e invece di acconciarsi e subirne la volontà, reagisce con tutta la sua terribile forza, dirompendo e scompaginando ben presto ogni più armata volontà filosofica. Accade perciò che i sistemi comincino chiari e ordinati, perché sorgono su bisogni storici chiari e maturi, e finiscano nel disordine e nell’assurdità, perdendo tenuta a mano a mano che, dai relativamente pochi problemi originari, si passa a quelli che sempre di nuovo rampollano e si ramificano da essi.

L’enigma del mondo, da cui l’uomo dipende per la sua felicità e la sua infelicità, per il suo incremento e il suo deperimento, per la sua vita e la sua morte, celebra così la sua vittoria. Ma anche se l’uomo non può superare l’antropomorfismo, limite inviolabile della sua apertura sulla realtà, gli resta ancor sempre la via di antropomorfizzare il più possibile la natura, il mondo.

La lotta, quindi, non è inutile. Essa assicura lo sviluppo ottimo e massimo della forma vitale umana, rigenerandola e ingrandendola, e parallelamente conquistando e colonizzando sempre nuovi territori. In questo senso l’uomo è simboleggiato dal contadino che, nel famoso quadro di Bruegel intitolato appunto Il volo di Icaro, coltiva il suo pezzo di terra senza badare a ciò che accade intorno a lui, in particolare alla caduta di Icaro nel mare.
D’altra parte però l’enigma del mondo espone l’uomo al contagio. Cioè non solo esso non si lascia risolvere, perché l’uomo non può uscire dalla sua forma vitale se non precipitandosi nel cratere di un vulcano o imbarcandosi sulla nave dei folli, cioè rompendo, distruggendo la forma stessa; ma per di più invade e contagia la base dell’uomo, rendendola a sua volta enigmatica, instabile, precaria, per la sua solidarietà e continuità col mondo. All’uomo viene così a mancare la terra sotto i piedi. Egli non sa più che cosa sia egli stesso, salvo per le abitudini e i costumi tra cui si svolge il suo vivere; non sa più perché cerchi e da che cosa e verso che cosa muova, pervenendo, al limite, a definirsi, come tutti gli altri esseri viventi, un’incarnazione della volontà di vivere, nelle parole di Schopenhauer, o lo sforzo di conservare il proprio essere (conatus suum esse servandi), nelle parole di Spinoza, sforzo che è al tempo stesso volontà di accrescimento, perfezionamento, potenziamento, ossia volontà di potenza, nelle parole di Nietzsche.

Ma si può chiedere se, a parte l’impotenza umana, l’enigma del mondo sia in sé risolvibile. La risposta non può essere che negativa. Perché? Perché, una volta stabilito che l’universo - non quello di cui abbiamo notizia, che può essere parte di un universo maggiore in cui singoli universi si creino e si distruggano con ritmo di sistole e diastole, secondo la concezione che fu già degli Stoici - non ha principio e non ha fine, è eterno ed infinito – come vuole la logica, perché questa è l’idea più semplice, essenziale, elementare, sulla quale tutte le altre sono basate (sono composite) - ci troviamo di fronte all’inconoscibile e siamo condannati all’eterno stupore.

Questo stupore è fatto, da un lato, di meraviglia e ammirazione, come il cielo stellato sopra di noi e la legge morale in noi, ma dall’altro di impotenza, sgomento, terrore. Perché abbiamo un padrone onnipotente e onnipresente, ignoto e inconoscibile e di noi noncurante (moltissimi insistono da sempre nel chiamarlo Dio).

Anche solo dal punto di vista teoretico, non abbiamo alcun mezzo per appurare, per sforzi che si facciano, se l’universo sia cosmo o caos, organismo o caso, apparendoci esso nelle due forme e valenze, trascoloranti l’una nell’altra; se esso sia, infine, divenire od essere: divenire in quanto il divenire è l’unica realtà sotto i nostri occhi (la realtà empirica); ed essere in quanto il divenire è un muovere da una difettività verso un’integrazione, e questa difettività potrebbe da un lato essere compensata dalla sua eternità (del divenire), ma potrebbe, dall’altro, essere ripetuta dal nostro modo umano, finito, antropomorfico di percepire la realtà, con inizio, sviluppo e fine, e rimane comunque del tutto insondabile nel suo significato. Ma anche se preferiamo l’essere al divenire, perché in base alla logica, che però non vuole necessariamente dire in base alla realtà, solo l’essere è pensabile come fatto semplice ed elementare, non il divenire, che è composito; anche allora non sappiamo che cosa sia l’essere, e affermarlo negando il divenire, senza sapere cosa dobbiamo cominciare a pensarne, non ha nessun senso, l’essere rimane una vuota parola. Dunque in nessun modo si può anche solo sperare di venire a capo dell’enigma del mondo, da cui tutto dipende.


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