Editoriali
L’Italia deve davvero produrre più olio extravergine di oliva?

Alla vigilia del nuovo Piano Olivicolo Nazionale occorrono alcune serie riflessioni sul futuro del sistema olivicolo-oleario nazionale, che non comprenda solo il mondo della produzione ma anche quello del commercio e della distribuzione. A partire dal livello produttivo e posizionamento dell’olio extravergine di oliva italiano
20 gennaio 2025 | 14:00 | Alberto Grimelli
Se la produzione di olio di oliva italiano restasse sulle 300 mila tonnellate annue, come è oggi, rischiamo l’irrilevanza sui mercati internazionali.
Ipotizzando di raddoppiare la produzione, ammesso sia possibile, il brand Italia sarebbe più presente, ma al prezzo di un inevitabile calo delle quotazioni.
L’equilibrio, molto fragile, su cui gioca l’olivicoltura italiana è la salvaguardia della base produttiva attuale, basata su oliveti tradizionali e intensivi, e la prospettiva di un aumento di produzione con impianti intensivi e superintensivi, che inevitabilmente abbasserebbero il prezzo dell’olio nazionale, esacerbando l’abbandono dell’olivicoltura tradizionale.
Per favore, non mi si dica che non è vero. E’ quanto sta accadendo, già oggi, in Portogallo e Spagna dove le massicce vendite di olio extravergine di oliva da impianti superintensivi hanno drammaticamente abbassato le quotazioni a inizio campagna, provocando la violenta reazione degli olivicoltori tradizionali. Non vi sono state proteste di piazza solo perché l’alto livello produttivo complessivo ha, in parte, compensato l’abbassamento della redditività causato dai più bassi prezzi. E l’olivicoltura superintensiva, in Spagna, rappresenta il 6-7% del totale.
Possiamo poi ragionare per stereotipi: tradizione vs modernità, tradizione vs innovazione, biodiversità vs omologazione, qualità e tipicità vs standardizzazione, sostenibilità vs impatto ambientale…
Possiamo invece ragionare in termini pratici.
A livello teorico, per aumentare la produzione italiana di 100 mila tonnellate, avremmo bisogno di 100 mila nuovi ettari di oliveti intensivi o superintensivi che hanno una capacità produttiva, teorica, di 1 tonnellata di olio prodotto all’anno ad ettaro.
Per realizzare investimenti per 100 mila nuovi ettari olivetati, immaginando un costo di impianto da 10 mila euro/ha, servirebbe 1 miliardo di euro. Perché l’incentivo alla piantumazione sia concreto occorrerebbe dare il 40-50% di contributi a fondo perduto, con un esborso pubblico da 400-500 milioni di euro.
Impensabili oggi per il bilancio dello Stato (il precedente Piano olivicolo nazionale investì 30 milioni di euro). Impensabile anche per i fondi regionali di sviluppo agricolo considerando che, per il capitolo investimenti in agricoltura-SRD, ci sono circa 2 miliardi di euro (27% circa dei fondi FESEAR). Significherebbe, ammesso la UE lo autorizzi, destinare un quarto di tutti i fondi per gli investimenti in agricoltura a un solo settore, quello olivicolo, che pesa 1/10, in fatturato, di quello vitivinicolo. A questi andrebbero aggiunti fondi compensativi per l’olivicoltura tradizionale, per evitare tensioni economiche, di mercato e sociali.
E mi sono limitato a un aumento della produzione di “sole” 100 mila tonnellate all’anno, non all’ipotetico raddoppio della produzione nazionale per cui servirebbero fondi doppi o tripli.
Senza un piano organico, ovvero lasciando fare la mercato, il rischio è quello di favorire tensioni sui prezzi, per la diffusione relativa di impianti superintensivi, e di esacerbare il fenomeno dell’abbandono degli oliveti tradizionali e intensivi, con conseguenti perdite produttive. Ci ritroveremmo, più o meno, al punto di partenza a livello di sistema Paese.
Vi sono quindi ragioni pratiche e di bilancio, che motivano l’impossibilità di raddoppiare la produzione di olio nazionale se non su un arco di tempo molto lungo: 20-30 anni, improponibile in tempi di cambiamenti climatici, di volatilità dei consumi, di elevata competitività internazionale.
Non potendo puntare sul raddoppio della produzione con nuovi impianti, dobbiamo ragionare sulla salvaguardia dell’esistente, la massimizzazione della sua produttività e della sua redditività.
Già solo con l’irrigazione diffusa si potrebbe aumentare la produttività del 50-60% o più in molte regioni olivicole del Centro Sud. Passando dagli attuali livelli di olivicoltura irrigua in Italia a quelli spagnoli, la produzione nazionale potrebbe salire da 300 a 400 mila tonnellate annue, in relativamente pochi anni.
Ma bisognerebbe anche garantire che i costi sostenuti per l’irrigazione vengano compensati da un’adeguata remunerazione dell’olio. E’ avvenuto negli ultimi due-tre anni per una congiuntura favorevole. Occorrerebbe far diventare la congiuntura favorevole strutturale, attraverso un piano organico che coinvolga commercio e distribuzione olearia.
Dimenticando le fallimentari campagne promozionali istituzionali, occorre capire cosa serve concretamente, a partire dal punto vendita della Grande Distribuzione fino all’industria-commercio (non il contrario), per posizionare l’olio extravergine di oliva italiano a scaffale sui 10 euro/litro, livello che rappresenta probabilmente il punto di equilibrio per dare a tutti gli attori della filiera un’adeguata redditività.
Mi auguro che i prossimi lavori del Tavolo di Filiera non contribuiscano a scrivere perfetti libri dei sogni.
Se devo scegliere, all’ennesimo fantastico Piano olivicolo nazionale irrealizzabile, preferisco un bel libro di Hans Christian Andersen, di Jaen La Fontaine, di Isaac Asimov o di Italo Calvino.
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Accedi o RegistratiMarco Moschini
21 gennaio 2025 ore 09:43Gentile Direttore, ottimo suggerimento, le auguro una buona lettura. Io scelgo Italo Calvino, tra quelli da lei suggeriti; comunque la lista degli autori soddisfa vari generi letterari, ce n'è per tutti i gusti.
Quando avrà sentore che apparirà un degno piano olivicolo nazionale realizzabile, ce lo faccia sapere. Temo che, nel frattempo, avrò esaurito tutti i testi disponibili, nel qual caso, le chiederò di fornirne altri, magari su argomenti diversi.
Gigi Mozzi
26 gennaio 2025 ore 10:51caro direttore
credo che bisognerebbe aggiungere un autore che, da un pò di tempo, viene ingiustamente trascurato.
Adam Smith il 9 marzo 1776 pubblica la Ricchezza delle Nazioni dove scrive che
“il consumo è l’unico fine e scopo del produttore e l’interesse del produttore andrebbe preso in considerazione solo nella misura in cui può essere necessario per promuovere quello del consumatore”
poi, per essere sicuro di essersi spiegato bene, continua
“la massima è così autoevidente che sarebbe assurdo tentare di dimostrarla”.
bisognerebbe anche sentire le parole che
200 anni dopo, nel 1976, Michele Ferrero, diceva ai giovani che aveva radunato a Bruxelles
“cercate i compratori: non siamo noi che vendiamo, sono loro che acquistano”
in tutto quello che ci raccontiamo, manca sempre il protagonista principale, il consumatore:
e non basta metterlo nel sedile posteriore e portarlo dove è comodo per noi, è lui che guida.